Stefano Urbanetti ci racconta la nascita di Quattro Quinti e l’imprevidibilità del creare un documentario

Intervista a Stefano Urbanetti

Entrare in contatto con quel legame etereo tra autore e opera è sempre un’esperienza diversa. Ci sono quei registi che mirano a raccontare la tecnica di realizzazione, chi preferisce approfondire la filosofia dietro le scene e poi chi, semplicemente, vive ancora il fuoco del set e saltella incontrollato da un argomento a un altro. Ecco, questa è stata la chiacchierata con Stefano Urbanetti, regista e sceneggiatore del documentario Quattro Quinti (trailer). Alla diciottesima Festa del Cinema di Roma, ha raccontato al pubblico il mondo del calcio per i ciechi, seguendo le partite della squadra calcio ASDD Roma 2000. L’intervista è stata come una montagna russa: non ne capivi bene il percorso ma ti emozionavi, ti incuriosivi, e, soprattutto, speravi che non finisse più. Qui, però, le parole devono trovare un loro ordine e cercare di catturare quel senso di gioia e riconoscenza che Stefano Urbanetti ha avuto nel raccontare il suo film.

Iniziamo con la domanda più difficile: presentati scegliendo tre film che ami.

Questa se me la dicevi prima me la preparavo. Amo talmente il cinema che, così su due piedi, non è facile scegliere tre film. Non saprei, per esempio io apprezzo molto la nuova scena messicana, oppure stimo tantissimo Garrone e Sorrentino ma ho anche il mito di Ejzenstejn e Chaplin. Sono davvero un cultore del cinema, potrei dirti magari tre film che per me hanno un significato particolare ma, sicuramente, ne dimenticherei qualcuno. Il primo che mi viene in mente è The Man Who Wasn’t There dei fratelli Coen, l’ho visto più di dieci volte ed è un capolavoro di sceneggiatura per me. Un altro film che è stato fondamentale quando studiavo all’università è stato, invece, The Truman Show, che adoro. Infine, direi il primo film che vidi al cinema, da piccolissimo, il primo in live action, che fu E.T.

A Roma hai presentato il film Quattro Quinti. Come nasce l’idea di raccontare il mondo del blind soccer?

Intanto sono un grandissimo appassionato di calcio, ma fu l’incontro con Jacopo, uno dei giocatori della squadra, che diede vita all’idea. Dal giorno in cui l’ho conosciuto sono stato come investito da una sorta di vocazione: io dovevo girare quella storia. Così è iniziata questa lunga gestazione, durata cinque anni, tra emergenza sanitaria e interruzione del campionato. Apparentemente poi, essendo un documentario, sembra un film girato “a braccio”, senza alcun tipo di filtro. Invece, durante il montaggio, ho sentito la necessità di dargli una drammaturgia, una scrittura, anche perché io nasco sceneggiatore. Per quasi due anni, quindi, ho ragionato sui conflitti narrativi, sui tre atti e sugli obiettivi che dovevano avere i protagonisti. La nascita della scuola calcio, infine, mi ha poi dato la chiusa perfetta, dando al film la circolarità drammaturgica che cercavo. Il montaggio, in breve, è stato scrittura.

Immagino, quindi, che avrai avuto tantissime riprese, dato che cercavi questa drammaturgia interna al documentario.

Sì, ho una quantità spropositata di riprese, circa 30 ore di girato. Alcune non le ho potute inserire perché non sapevo dove metterle. Poi ho anche scene che, purtroppo, non ho girato e di cui mi sto ancora pentendo. Come una volta in cui, in trasferta dopo cena, tutti stanchissimi, la squadra aveva saputo di una gara di bellezza in un paese vicino con ragazze che sfilavano. Appena lo hanno saputo sono impazziti: dovevano andarci assolutamente. Sì, perché sono come tutti gli altri, fondamentalmente. In quel momento ho pensato che avrei chiuso il film, perché era la cosa più poetica che esistesse ma niente, purtroppo, la troupe era sfinita e quindi ho solo un ricordo sul cellulare. Questo per dire che nella realizzazione di un documentario può succedere di tutto con le riprese e i materiali.

Intervista a Stefano Urbanetti

Ci sono stati dei film che ti hanno ispirato per la realizzazione di Quattro Quinti?

Sicuramente Searching for a sugar man, un documentario di Milik Bendjelloul, perché ha dei colpi di scena incredibili, tantissima drammaturgia. Oppure la serie Wild Wild Side, perché inizialmente pensavo di girare una serie TV, non un film. I miei maestri, però, quelli che hanno influenzato di più il mio lavoro, sono stati Sergio Citti e Silvano Agosti. Sono stati i miei punti di riferimento intellettuali sia durante le riprese che durante il montaggio. Mi hanno insegnato che il cinema deve essere esigenza, devi avere il bisogno di raccontare quella storia. Se non hai quel qualcosa dentro è inutile che lo fai, perché non sarebbe naturale, non ci sarebbe l’istinto.

Il cinema è una delle arti più visive. Mentre facevi le riprese, o anche dopo in fase di montaggio, ti sei chiesto come rendere il film più accessibile a chi è ipovedente?

Certo. Io sono un ossessivo compulsivo perfezionista e, anche se il film piace, io, ancora adesso, sto male perché c’è una scena in cui si sente male l’audio. L’audio, infatti, è stato centrale per il racconto, sia per il pubblico normodotato che no. Come nella scena d’animazione, in cui volevo sottolineare lo scarto, la differenza, di realtà tra chi vede e chi invece si deve costruire il mondo solo attraverso i suoni, che è quasi un superpotere per me. Ho poi lavorato fin da subito all’audiodescrizione con l’aiuto di una mia amica, Laura Raffaeli, che mi ha anche “bacchettato”. Infatti, c’era una scena in cui come audiodescrizione avevo scritto “nei suoi occhi si intravede l’infinito”, e giustamente, lei mi ha fatto notare che i ciechi tutti i giorni vivono d’infinito, che per loro non significava niente quella frase. Mi ha davvero cambiato la vita lavorare a questo film, loro mi hanno cambiato la vita.

Hai progetti per il futuro?

Ho in lavorazione un film proprio su Sergio Citti e poi ho iniziato a pensare a Quattro Quinti – Parte seconda, proprio perché questa urgenza di raccontare la realtà del blind soccer non si è esaurita. In questo nuovo capitolo vorrei seguire la squadra femminile.

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