Il metodo Kominsky, la recensione della terza stagione su Netflix

Chuck Lorre (prolifico creatore d’assai celebri sitcom televisive, come Due uomini e mezzo e The Big Bang Theory) torna su Netflix con la terza, ultima stagione de Il metodo Kominsky (trailer).Già con la prima aveva dichiarato più o meno implicitamente di voler alzare il tiro, stufo delle risate forzate, degli ambienti unidimensionali e di tutte quelle stereotipie che rendono le sue sitcom tanto amate e altrettanto vilipese. (Prima stagione, puntata uno: Sandy si lamenta con Norman perché non l’hanno preso in una sitcom: «Peccato, quelli lì di “Big Bang coso” fanno un milione a settimana». Norman: «Lascia stare, quella è robetta, è merda»). Questo Lorre autoironico prometteva davvero bene; peccato che la nuova verve si sia esaurita così presto.

A determinare la conclusione prematura c’è sicuramente l’intempestivo ritiro di Alan Arkin dai panni di Norman Newlander, il caustico e irresistibile miglior amico (e agente) di Sandy Kominsky (un Michael Douglas tanto vecchio quanto brillante). Avevamo visto Norman perdere la moglie e con lei anche il senno, poi trovare conforto in un’altra donna, occuparsi della tossicodipendenza della figlia Phoebe (Lisa Edelstein) e del giovane figlio di questa, Robby, un fanatico di Scientology, mentre Sandy, impegolato in una turbolenta relazione con Lisa (Nancy Travis) e indispettito da quella tra sua figlia Mindy (Sarah Baker) e Martin, uno strampalato sessantenne, soccorreva fraterno il suo vecchio amico dandogli buone ragioni per non ammazzarsi.

E così, senza Arkin, la terza stagione de Il metodo Kominsky deve fare a meno di un personaggio cruciale, che viene fatto morire: il primo episodio lo passiamo al suo funerale. La vicenda perciò germina stavolta da un’assenza forte, ma non campa solo di questa, come avrebbe potuto fare. A riempire il vuoto strutturale subentra l’ex-moglie di Sandy (Kathleen Turner): sta tornando a Los Angeles per concertare il matrimonio della figlia. Funziona? Sì, ma è evidente in ella l’impronta che dava a Norman quello stesso piglio salace e vibrante che Sandy adora. Figura qualche cameo qua e là, il più sostanzioso quello di Morgan Freeman in veste di Morgan Freeman. Figlia e nipote di Norman, invece, con un triste voltafaccia si mostreranno incorreggibili. Dalla desolazione dell’età senile l’attore che non ebbe mai il successo agognato e ripiegò sull’insegnamento andrà incontro a sorprese meno funeree del previsto…

Sei episodi invece di otto. Lorre se li scrive tutti in solitaria, talora frettolosamente. Vuole concludere, è chiaro. E lo fa con semplicità, senza strepito, ma nemmeno troppo sottotono. Non rinuncia a una certa classe nella scrittura, ai battibecchi sempre calati nel ridicolo, alla malinconia ben riposta dietro una maschera dal sogghigno beffardamente ironico. E così sorridiamo un po’, sospiriamo un po’… Sempre meglio che scolarsi dodici stagioni di “Big Bang coso”.

Già, la serie è conclusa, ma sulla penna di Lorre non è detta l’ultima parola. Nel 2019 è tornato alle vecchie abitudini con la sitcom Bob Hearts Abishola, per la CBS, la quale senza dubbio paga bene, ma il formato, si sa, è obsoleto: è la dramedy il prodotto di punta dello streaming a pagamento, e oggi, lo streaming, tiene banco. Chissà, magari proprio ora Chuck sta buttando giù un nuovo concept altrettanto potente, di alto profilo, esuberante e schietto come piace a noi. Speriamo solo che poi Warner Bros. e Netflix non si lascino sfuggire l’occasione.

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