Omicidio in diretta, 25 anni dopo: lo “sguardo meccanico” che svela la realtà sfuggente

locandina, omicidio in diretta di Brian De Palma

Il cinema si è sempre prestato a diverse riflessioni su temi legati alla visione e allo sguardo. Di sua natura, infatti, la macchina da presa è un mezzo attraverso il quale la realtà può essere osservata, scrutata, sorvegliata: tutto ciò grazie a quello che Dziga Vertov definisce “l’occhio meccanico” e alla sua capacità di poter catturare ciò che fa parte del mondo circostante. Il medium del cinema, quindi, può essere inteso come strumento di conoscenza e garanzia di accesso al reale, poiché, in quanto macchina, ha la possibilità di riprendere e di illustrare il mondo in maniera unica. Lo “sguardo meccanico” viene spesso in aiuto allo “sguardo umano”, poiché quest’ultimo risulta essere delimitato, circoscritto, contenuto: al di là dell’ambito cinematografico, un macchinario in grado di catturare e riprodurre la realtà permette all’essere umano di ri-osservare al meglio la realtà stessa, fissata su una fotografia o ripresa in telecamera. Lo “sguardo” attraverso la macchina diventa un’estensione dei sensi, che alimenta l’idea della visione e dell’osservazione, proponendo importanti riflessioni sul cinema, sull’estetica e sull’atto stesso del guardare.

È sulla base di queste riflessioni che si sviluppa Omicidio in diretta, del regista italo-americano Brian De Palma. Esponente della New Hollywood insieme a registi come Martin Scorsese, Steven Spielberg, George Lucas, Robert Altman, Francis Ford Coppola e Arthur Penn, De Palma si è affermato nel corso degli anni grazie ad importanti pellicole, spaziando in vari generi cinematografici, pur mantenendo sempre uno stile personale e riconoscibile: tra queste, si possono ricordare Carrie – Lo sguardo di Satana (1976, adattamento del primo romanzo del celebre scrittore americano Stephen King), Vestito per uccidere (1980), Scarface (1983), The Untouchables – Gli intoccabili (1987), Carlito’s Way (1993) ed il primo capitolo della celebre saga d’azione Mission: Impossible (1996). Con Omicidio in diretta, il regista chiude gli anni Novanta attraverso il thriller, genere che lo ha reso famoso e a cui, probabilmente, viene associato di più anche grazie all’accostamento che spesso è stato fatto con il grande maestro Alfred Hitchcock, di cui De Palma è considerato l’erede.

Scritto da David Koepp, già collaboratore di De Palma nei precedenti Carlito’s Way e Mission: Impossible, il film ruota attorno alla storia di Richard “Rick” Santoro (Nicolas Cage), un detective corrotto e donnaiolo che assiste ad un incontro di boxe del campione dei pesi massimi, Lincoln Tyler (Stan Shaw). All’evento è presente anche il suo migliore amico, il Comandante della Marina Kevin Dunne (Gary Sinise) che, per l’occasione, fa da scorta al Segretario della Difesa degli USA Charles Kirkland (Joel Fabiani). Durante il primo round, però, un cecchino colpisce Kirkland a morte, uccidendolo dagli spalti e colpendo di striscio la donna accanto a Rick, Julia Costello (Carla Gugino), analista collaboratrice del Dipartimento della Difesa. Da quel momento in poi, il protagonista si trova a dover risolvere il caso, attraverso i suoi metodi spesso sbrigativi e violenti, e cercando di ricostruire il tutto attraverso il suo sguardo e quello delle telecamere di videosorveglianza.

Determinante è, infatti, quello che Rick riesce a rielaborare: attraverso un lavoro di memoria “fotografica” basata sul ricordo e su quello che egli ha visto poco prima degli spari, il protagonista dà il via alle sue indagini. Si rende conto che la realtà risulta essere ben diversa rispetto a come essa gli era apparsa a prima vista, rivelando dettagli fondamentali che Rick non era stato in grado di interpretare sin dall’inizio. Tramite una rielaborazione di tipo mnemonico su ciò che il suo sguardo aveva catturato, egli smaschera uno degli elementi fondamentali che ha permesso l’omicidio, ossia il fatto che l’incontro fosse truccato. In questo modo, Rick scopre che esso è strettamente correlato all’omicidio di Kirkland. Eppure ciò non basta per risolvere il mistero. Il detective deve fare i conti con i limiti che gli vengono posti dal proprio ricordo: la mente umana, infatti, per quanto si sforzi di ricostruire gli eventi, non è una macchina in grado di “riavvolgere il nastro” e presentare la realtà come nel momento in cui questa si è manifestata. La memoria e la testimonianza oculare sono elementi che, umanamente, possono apparire sfocati, poco chiari, confusi nel momento in cui essi devono alimentare la ricostruzione degli eventi. È qui che risulta necessario, quindi, un ulteriore punto di vista: quello “sguardo meccanico” della telecamera che può riproporre quella porzione di realtà.

In questo modo, il protagonista può effettivamente recuperare quella realtà sfuggente, ambigua, confusa che elude l’occhio umano, ma non quello meccanico. Sono le telecamere di videosorveglianza (come in fin dei conti, la macchina da presa del regista) che vengono in soccorso a Rick durante le indagini, essendosi fatte carico di catturare il reale. Ri-osservando le immagini dell’incontro più volte da diverse inquadrature, tramite le riprese dei cameramen a bordo ring o sugli spalti, il detective giunge a delle conclusioni che non sarebbero state possibili senza l’aiuto dello “sguardo meccanico”. L’idea, quindi, è che la verità risieda in ciò che la telecamera ha catturato, e non nell’occhio umano di chi ha osservato la scena: l’immagine che viene ripresa si afferma come rivelatrice del reale, al di là dello sguardo umano. In un emblematico dialogo, infatti, il protagonista afferma che <<tutti nel pubblico sono testimoni oculari>>: effettivamente, tutti hanno visto o assistito alla scena, ma nessuno ha davvero “guardato” mentre si consumava l’omicidio nel bel mezzo del pubblico; e se anche qualcuno avesse prestato la minima attenzione (come accade per Rick), non sarebbe riuscito comunque a catturare l’intera porzione di realtà attraverso il proprio sguardo, in quanto essere umano.

Dovendosi scontrare con quest’idea, il detective si trova a ricostruire il tutto quasi esclusivamente attraverso le decine di telecamere che ci sono in ogni singolo settore dell’intero edificio: recandosi nella sala di sorveglianza, ri-osservando la scena dello sparo più volte ed evidenziando movimenti sospetti tra il pubblico e sugli spalti, la realtà inizia a prendere forma e a palesarsi in maniera nitida dinanzi agli occhi del protagonista (e di conseguenza, anche a quelli dello spettatore), confermando lo “sguardo meccanico” come l’unico elemento in grado di catturare qualsiasi cosa sul mondo circostante. Questa centralità che arrivano ad assumere le telecamere si evince anche dalla continua presenza della stampa sul posto: cameramen, inviati, giornalisti televisivi intenti a riprendere e a raccontare il fatto, sono sempre presenti in scena; ed è proprio con un servizio televisivo che si apre il film.

In riferimento a questa presenza costante delle telecamere (di sorveglianza, dei giornalisti e del regista), è emblematico il titolo originale del film, Snake Eyes. Gli occhi e la vista del serpente sono, infatti, definiti da una particolarità: l’assenza delle palpebre. Il parallelismo si fa quindi con la vista dell’essere umano: al contrario del serpente, il flusso di immagini che raggiunge i nostri occhi è continuamente interrotto dal riflesso di ammiccamento (ossia, lo sbattere le palpebre inconsciamente). Chiudendo involontariamente gli occhi, è come se facessimo “calare il sipario” delle nostre palpebre in maniera altrettanto inconsapevole; anche se solo per qualche millesimo di secondo, quindi, questo fatto interrompe la nostra osservazione sul mondo circostante.

Da questo punto di vista, la visione della realtà e la visione di un film condividono la stessa condizione di discontinuità: la prima, a causa dell’ammiccamento; la seconda, a causa del montaggio. È il montaggio stesso, infatti, che arriva a “spezzettare” letteralmente ogni singola sequenza: esso, quindi, ha saputo trarre vantaggio dalla natura della nostra visione limitata e incompleta; è qui che entrano in gioco gli “occhi di serpente”, simboleggiati nient’altro che dalle telecamere, come qualcosa in grado di non perdersi mai alcun frammento della realtà. Una realtà che, se all’occhio umano risulta sfuggente e limitata, all’occhio di un serpente (e quindi, per come viene inteso nel film, di una telecamera) risulta, invece, essere continuamente sorvegliata e controllata.

È a questo proposito che De Palma propone uno dei principali espedienti visivi del suo cinema: l’utilizzo del piano sequenza. Emblematico, è quello realizzato all’inizio del film (circa 13 minuti) come soluzione di continuità dell’azione, che vede la macchina da presa seguire il protagonista per tutto l’edificio, fino ad arrivare al momento dell’attentato a Kirkland. Il montaggio è definito da un’unica inquadratura per tutta la scena iniziale: in questo modo, quindi, il passaggio da un fotogramma all’altro non esiste e, di conseguenza, il fenomeno dell’ammiccamento da parte dello spettatore non viene alimentato dal montaggio; anzi, è proprio lo spettatore stesso che è costretto a seguire la macchina da presa mentre “striscia” intorno al protagonista senza alcuno “stacco”, esattamente come un serpente che non sbatte mai le palpebre. Ecco perché la telecamera che rivolge lo “sguardo meccanico” sul mondo è associata allo sguardo del rettile: essa ha la possibilità di “osservare” in maniera costante e continua la realtà senza interruzioni, esattamente come farebbe un serpente (e come difatti accade per la videosorveglianza).

Un discorso simile era già stato proposto da De Palma in altri due celebri film del passato. Il primo, Blow Out (1981), vede un tecnico del suono registrare per puro caso una prova secondo cui un incidente stradale è, invece, un omicidio premeditato; la pellicola presenta di nuovo l’idea di una realtà che deve essere ricostruita, prima di poterne cogliere il significato. Questa volta, però, è tramite l’udito che il protagonista giunge alla soluzione, e non attraverso la vista come era stato per Blow Up (1966) di Michelangelo Antonioni (a cui De Palma si è ispirato), né tanto meno a come sarà, per l’appunto, in Omicidio in diretta. Il secondo film invece, Omicidio a luci rosse (1984), ruota sempre attorno all’idea della visione, dell’atto del guardare, della realtà ingannatrice e del voyeurismo, ispirato dichiaratamente al capolavoro di Hitchcock La finestra sul cortile (1954). È importante poi evidenziare come De Palma non si dimentichi mai di imprimere il proprio stile durante tutta la durata del film: escamotages e soluzioni visive tipiche del regista italo-americano che ricorrono nei suoi film e che anche qui si presentano agli occhi dello spettatore sono, ad esempio, l’utilizzo del piano sequenza, i lenti movimenti di macchina, lo split-screen, la soggettiva, lo split diopter shot, lo slow-motion e la suspence.

In conclusione, possiamo affermare quindi che Omicidio in diretta, dietro la facciata di un “semplice” thriller avvincente e tipico del cinema d’intrattenimento, nasconde interessanti riflessioni e sottotesti in riferimento all’interpretazione della realtà, al rapporto tra l’occhio umano e ciò che esso osserva, alla visione proposta dalla macchina, e a come quest’ultima definisca una vera e propria rivisitazione del concetto di “sguardo”. Pur non ottenendo un grande successo di pubblico e critica, il film resta, a distanza di 25 anni, il testamento di un regista come De Palma che, con gli anni Duemila, non è più riuscito a raggiungere una vasta schiera di spettatori, complici anche le dinamiche di distribuzione dei suoi film.

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