Fantastic Machine, la recensione: il cinema nella vita di ognuno

24 fotogrammi al secondo sono la misura attraverso la quale scandiamo il tempo da ormai più di 100 anni. Il nuovo documentario di Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck prodotto da Ruben Östlund (regista di Triangle of Sadness, The Square, Force Majeure), Fantastic Machine (trailer), parla della storia del medium-immagini-in-movimento.

Il titolo riporta l’affermazione che re Edoardo VII pronunciò davanti al filmato creato in studio da Méliès, della “sua” incoronazione: «What a fantastic machine!». Dopo un iniziale ripasso di storia dei media, del cinema e della televisione, con una particolare attenzione all’impiego delle immagini in movimento in campo politico e propagandistico, il documentario mostra come questo medium abbia cambiato la nostra società e influenzi le nostre vite.

L’attenzione, poi, si sposta principalmente sui dispositivi di ripresa audiovisiva nelle mani dei consumatori, dopo che non fu più appannaggio esclusivo dei tecnici cinematografici e televisivi. Quindi, partendo dagli anni 70 con la diffusione del super8, il documentario va alla ricerca dei filmati della gente comune, passando attraverso le riprese digitali delle videocamere e concludendo con quelle degli smartphone.

Le premesse di un prodotto del genere incuriosiscono parecchio lo spettatore. È un peccato che la realizzazione invece sia deludente. Il documentario vuole risultare fresco (con cambi liberi di aspect-ratio, montaggio frenetico), riprendere il linguaggio social delle ultime generazioni, ma scade in un’analisi superficiale dell’evoluzione del mezzo. Del tutto schierato con la “sinistra” atlantista, sembra ordinato dalla segreteria del partito democratico americano e, non a caso, ha il supporto del Creative Europe media program. Per chiunque con una finezza mentale capace di andare oltre le sovrastrutture e la propaganda mediatica dell’uno o dell’altro schieramento, il documentario risulta inutile, perché i ragionamenti proposti sono da sempre sotto gli occhi di tutti.

Riaffiora il solito umanesimo di Östlund, che, pur essendo straordinario per il giorno d’oggi, non è sicuramente sorprendente. Qui, in particolare, viene allungato con una retorica tipica del web: persone non qualificate che parlano di argomenti che non sanno, sulla base di ragionamenti accessibili a tutti.

Inoltre, la carrellata di video presi dai social, su cui si basa una buona metà del minutaggio, è composta da contenuti ben noti a chiunque non abbia chiesto al proprio nipote una mano per creare l’account Facebook. Se da una parte è essenziale mostrare quei video virali (da sempre presenti nei feed di You-Tube, Instagram e TikTok) per ripercorrere la storia di queste piattaforme, dall’altra non viene colta l’occasione di porre domande nuove a chi già conosce questo mondo. Viene piuttosto da chiedersi: a chi è rivolto questo documentario? A chi non conosce i social-network? A chi non si fa domande quando utilizza i social-network? A chi si vuole sentire intelligente perché sa tutte le risposte alle domande aperte dal documentario?

Al cinema dal 9 maggio.

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