Brutalismo o brutalità? Grossi blocchi di cemento iniziano ad inquinare lo skyline statunitense segnandolo irrimediabilmente. L’Europa si spoglia delle sue menti, costrette alla fuga dagli orrori di un paese disastrato. The Brutalist di Brady Corbet è il ritratto di un’epoca, di una nazione e di un modo di pensare che ha influenzato l’occidente da quel momento in avanti.
Siamo nel 1947, il film inizia con un tunnel buio e voci confuse dal quale nasce, da un metaforico parto, László Tóth (Adrien Brody), architetto ungherese della leggendaria Bauhaus. Il bimbo, in realtà immigrato adulto, esce dal grembo della nave e apre gli occhi sulla sua nuova vita. L’infermiera è buona e portatrice di speranza, è la statua della libertà il primo volto accogliente. Ma quando si viene al mondo non si ha passato, non si è nessuno. Un colpo di genio però, condito da un po’ di fortuna, lo porterà presto alla corte del ricco uomo d’affari Harrison Van Buren (Guy Pearce) dove otterrà una proposta per un lavoro senza precedenti.
È inutile girarci attorno ulteriormente, siamo davanti ad un capolavoro indimenticabile. Lo stile è quello del kolossal, il film impossibile, uno di quelli che si vedono una volta ogni dieci anni. La sensibilità con cui tocca i temi trattati però è quella artistica d’essai, l’erede spirituale della Nuova Hollywood. La colonna sonora incessante riempie la sala, si insinua nelle vene abbinandosi a delle immagini di una bellezza e cura degne dei grandi maestri. Le performance attoriali si aggiungono alla costruzione magistrale: gli sguardi, i movimenti e i piccoli dettagli lasciano trasparire una chimica intensa nel rapporto tra i personaggi complessi.
Si parla di individualismo, l’ergersi di un memoriale che da un lato vuole seguire le regole di beceri egoismi e dall’altro, con astuzia, raccontare la storia di un popolo. Mettiamoci una piscina, propone l’architetto. Non so nuotare, risponde il committente dopo aver ammesso incoerentemente di avere un’idea per uno spazio per la comunità. Ognuno gioca per sé stesso, con le proprie carte in mano, in una guerra di logica, parole e cantieri. Non manca l’epica, l’odissea di László, la storia di un uomo tradito e addolorato, incapace di provare i piaceri carnali che è costretto a vagare quando vuole solo trovare un posto da chiamare casa. La moglie, Erzsébet Tóth (Felicity Jones), lo spiraglio di luce che lo regge, la memoria e la ragione, è il grillo parlante di questo mito moderno. La narrazione della diaspora vista e vissuta dagli occhi di un ebreo che non può identificarsi, che vende la sua morale alla mercè delle sua arte.
Durante la visione si è avvolti da quest’aria di grandezza, come quella dei palazzi del protagonista. Il regista è stato capace di modellare una crasi indissolubile tra l’oggetto filmico e le modalità del suo racconto. Tutto è maestoso, pomposo e mai barocco ma, appunto, brutalista. Gli spigoli, le linee e gli angoli degli edifici così freddi sono lo specchio delle relazioni umane, simbolo di un’epoca capace di uccidere Dio per sostituirlo e prenderne il posto. Il sottotesto pregnante di una profondità da esplorare, non a mani nude ma con grosse escavatrici, è la chiave per poter ammirare questo puzzle complesso. I malvagi mattatori che detengono il potere perché possessori di denaro e terre si divertono ad usare la genialità altrui per i loro scopi ludici. Dall’altra parte però c’è un eroe, un uomo con l’astuzia di Ulisse e la forza ineluttabile di Ercole, ma con le fragilità virili simbolo della contemporaneità.
Non è facile con le parole descrivere le emozioni viscerali e intellettuali che questo film riesce a donare allo spettatore disposto a farsi naufragare nell’oceano di significato. Ciò che resta da dire è che The Brutalist resterà, magnum opus degli anni ’20 del nuovo millennio, una stella cometa impazzita che illumina il firmamento di mediocrità. La speranza è che Brady Corbet si possa riconfermare con i suoi prossimi lavori ma già da oggi, senza paura, lo si deve considerare nell’annovero dei grandi maestri.