Ricordiamo tutti bene il primo Joker, Venezia ricorda bene il primo Joker. Nel 2019 il Festival aveva visto trionfare con uno storico Leone d’Oro questo oggetto particolare, un po’ cinecomic un po’ film d’autore, quasi di troppo in una rassegna di questo tipo (ma non per la visione del direttore Alberto Barbera, da sempre aperto a forme di cinema più popolare all’interno della Mostra). Subito fenomeno di culto e gallina dalle uova d’oro per una Warner Bros in difficoltà – specialmente con i film della DC Comics – aveva guadagnato globalmente più di un miliardo di dollari, a fronte di un budget di 55 milioni e di un Rated R (vietato ai minori), in altri tempi considerato proibitivo.
Un caso, insomma, che non poteva rimanere unicum: e allora, di nuovo in Concorso alla 81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, arriva il sequel Joker: Folie à Deux (trailer) sempre con Todd Phillips alla regia, e porta con sé tutti i dubbi, le attese e le curiosità che un’operazione così smaccatamente commerciale negozia con un intento autoriale, in continuità con il capitolo precedente.
Il film era stato presentato – seppur un po’ a bassa voce, quasi a doversene pentire – come un inedito musical ambientato nel penitenziario criminale di Arkham, con protagonista la coppia di Arthur Fleck/Joker (interpretato sempre da Joaquin Phoenix) e la sua amata Harley Quinn (Lady Gaga). Avevamo già visto i due rincorrersi, odiarsi, amarsi per le strade di Gotham nel famigerato Suicide Squad, ma quelli erano altre versioni e altri attori; era chiaro che stavolta l’approccio sarebbe stato diverso, in ragione di un tono più maturo e serioso, e qualsiasi forma di rapporto semi adolescenziale e kitsch è stato sapientemente evitato. In questa riproposizione, Harley Quinn è solo accessorio speciale e il suo minutaggio è sorprendentemente ridotto rispetto alle aspettative: Joker: Folie à Deux non ha due protagonisti, perché il perno di tutto rimane sempre lui, il Pagliaccio del crimine.
Ma l’apporto della new entry femminile non è nullo, anzi: in primis perché il film è a tutti gli effetti una storia d’amore tra i due, con il passo danzante e leggermente allucinato del musical (grazie anche a una Lady Gaga che gioca in casa e padroneggia il mezzo). E il musical, come potremmo logicamente aspettarci, è pura distorsione, artificio scenografico e saturato di una mente squinternata e insanabilmente fratturata. Già Joker era un film costruito sul ritmo della musica interiore di Arthur Fleck, che d’altronde vedeva il mondo come palcoscenico: per cui, nulla di veramente fuori luogo.
Ma soprattutto, Harley, sostenitrice fervente del devasto sociale scatenato da Joker – e alter ego dei fan più accaniti del primo film, che hanno sovente misinterpretato il suo messaggio – ha un ruolo chiave nel suo percorso di consapevolezza all’interno del manicomio di Gotham. Qui, Arthur si interfaccia con le conseguenze delle sue azioni nella pellicola del 2019, e in un certo senso in lei ne rivede un effetto concreto. Perché Joker: Folie à Deux è un film che si guarda continuamente indietro, che ritorna quasi paranoicamente al precedente e ne è naturale e inscindibile prosecuzione.
Joker era stato uno dei primi film (al di fuori delle escursioni parodistiche dei cinecomic come Super! di James Gunn) a incrinare il paradigma vigilantesco dell’eroe al di sopra della legge – che fino a quel momento era sembrato quasi inquestionabile per il filone cinefumettistico – ponendo ambiguamente al vertice del discorso un super villain. E, nota di non poco conto, trovava terreno fertile nell’allucinazione perpetua che era stata la società americana esacerbata dall’amministrazione trumpiana.
Per quanto si raccontasse spesso come un film solamente derivativo della New Hollywood, era in realtà il film giusto al momento giusto, e aveva molto da dire per il suo di tempo. E aveva da dirlo soprattutto in relazione al mito del supereroe: anche di fronte al marcio della città contemporanea, alle storture e alle ingiustizie del sistema sociale, un vigilante che oltrepassa i limiti dell’ordine e dell’ordinario non è un salvatore, un angelo, un messia; nella vita reale, è soltanto un pericoloso e sgangherato folle, che non tollera più niente di ciò che lo circonda, e aspira a diventare la (illusoria) soluzione.
Di fronte a queste avvisaglie sul fenomeno della santificazione politica e sulle follie del pensiero eccezionalista americano, il sequel non arretra né si nasconde, raccontando come quello pseudo-salvatore folle, in procinto di affrontare la giustizia per i suoi crimini, sia diventato ora un martire. E quindi ecco che nel musical si immette prepotentemente il procedural movie, e dalle asfissianti mura del carcere si sposta nel tribunale dove si terrà “il processo del secolo”, il primo a essere trasmesso in diretta televisiva (ritorna anche l’ossessione dei mass media per il sensazionalismo del primo film).
Arthur, da semplice vittima del sistema, è diventato quasi suo malgrado voce della rivoluzione, e si trasforma nel simbolo dell’insoddisfazione e dell’estremismo politico (in toto) che coinvolge tutta la società. Un’idea di Joker che si è staccata come un’ombra da Arthur ed è andata oltre la sua disperazione, generando emuli dappertutto.
Ma ciò su cui ci mette in guardia Joker: Folie à Deux, riprendendo la lezione del primo film, completandola, aggiornandola (anche ai nostri tempi, soprattutto con il discorso incipiente sulla mediatizzazione aggressiva dei processi penali), è la tenue fragilità dell’ideale esasperato e populista dell’eroe, del politico, lo si chiami come si vuole. È un avvertimento sul fuoco fatuo dell’ideale, sulla nascita e la morte di un’idea, tradita e uccisa dai suoi stessi seguaci, che forse neanche è mai stata davvero reale.
Arthur forse è solo un impostore, una vittima del contesto in cui ha vissuto prima, e dei significati che gli sono stati attribuiti dopo: il momento in cui se ne rende conto, in cui viene smascherata la sua vacua e triste inettitudine, è il momento di sconfitta più grande. Probabilmente è per questo che il film non sta convincendo poi così tanto: perché è antitesi quasi totale del precedente, percorso com’è da un mesto sentimento anti-trionfalista e rassegnato che chiude le porte a qualsiasi gloria. La conquista abbacinante che aveva concluso Joker qua rivela tutta la sua evanescenza, e Arthur è il capro espiatorio di una società sempre in cerca di un messia, pronta subito a eliminarlo quando non si rivela all’altezza delle speranze a lui attribuite.
È solo un uomo fragile, in fondo: non ha nulla del Joker machiavellico e calcolatore di Heath Ledger o Jack Nicholson, né dell’attitudine gangster di Jared Leto. Per physique du rôle, per background, per destino, il Joker di Joaquin Phoenix è solo un caso, un personaggio contingenziale adorato e poi rigettato dal mondo intorno a lui. Non è mai stato davvero un vincente, neanche quando sembrava essere ad un passo da avere Gotham in pugno: è stato solo l’incarnazione fortuita e quasi accidentale di un’ideale, per lui che avrebbe unicamente voluto che le persone si accorgessero quantomeno di lui.
Come tale, come ogni messia, è destinato a morire, immolato in croce, sacrificato prima dell’arrivo di un nuovo salvatore: stavolta non ci sarà resurrezione – almeno sembra, Phillips ha già espresso la volontà di non proseguire con il personaggio – resta solo la purificazione catartica di una società che ha trovato il suo pagliaccio da manipolare.
Joker: Folie à Deux sarà respingente, lo diciamo subito: anche perché di difetti ne ha, come una generale vaghezza narrativa e un atteggiamento di stanchezza che stupiscono in confronto a un primo episodio ben più ritmato e selvaggio. Ma la cosa migliore che gli si può riconoscere, è che consapevolmente affronta l’impossibilità di dare un seguito ancora più esplosivo al successo enorme del 2019, ragionando sulle speranze vane della società (e del pubblico, implicitamente) nei confronti dei fuochi fatui (e di questo tipo di sequel, che fuoco fatuo è). Se Joker raccontava la nascita di un’ideale, Joker: Folie à Deux è l’ecatombe tragica e dolente della sua morte, o meglio ancora della sua inconsistenza fantasmatica: il finale più onesto e sensato che si potesse immaginare per chiudere il cerchio.