Two Lovers e la poetica di James Gray

Two Lovers

«Si vive come si sogna: perfettamente soli»

(Cuore di tenebra – Joseph Conrad)

Il cinema di James Gray è un cinema semplice. Un cinema di uomini che non vogliono rinunciare a dei sogni che sono incapaci di rincorrere. È un cinema che trova la sua natura non nella spettacolarità, ma nella capacità stessa della specie umana di raccontare i propri fantasmi e le proprie ombre. Ombre che il regista newyorkese rende visibili e palpabili tramite una fotografia che rimane costante anche con il cambiare, negli anni, del direttore della fotografia.

Nel caso di Two Lovers (qui il trailer), film del 2008 presente sulla piattaforma Amazon Prime Video e preso come esempio in questo articolo, la fotografia cupa di Joaquin Baca-Asay colpisce lo spettatore, guidandolo nell’irrequietezza dell’uomo di fronte alla solitudine. Il direttore della fotografia usa al massimo la potenzialità del mezzo per comunicare le emozioni dei personaggi, in un gioco di luci e ombre, le stesse che li abitano. Quello messo in scena dal regista newyorkese di origini ucraine, è infatti un mondo irrimediabilmente lacerato, per questo profondamente archetipico, e che vede al proprio centro il sottosuolo di Dostoevskij, dal quale l’uomo è incapace di uscire al fine di cercare aria e di non essere soffocato come un bruco nel proprio bozzolo. Tale caratteristica, a livello stilistico, è sottolineata da ambienti chiusi, immagini incorniciate, strette, una fotografia bipolare che si alterna fra il caldo e il freddo e i continui silenzi, sottolineati da lunghi e snervanti sguardi fuoricampo che non trovano mai il proprio controcampo.

Qui emerge il chiaro riferimento registico a un altro figlio di immigrati con il quale, a livello umano, condivide un’inadeguatezza “gordiana”, ovvero Francis Ford Coppola (più esplicitamente citato in Ad Astra, che anche a livello di concept, appare come un riadattamento di Apocalypse Now). Questa convergenza si ritrova sia tematicamente, sia in quel montaggio che privilegia i silenzi, le pause e le inquadrature (come i fuoricampo privi di corrispettivi) che, nella loro indefinitezza, provocano nello spettatore lo stesso straniamento dei personaggi su cui lo sguardo della macchina da presa sta indagando. Così facendo, come sostiene Walter Murch (montatore video e sonoro di Coppola), ovvero estendendo la durata normale di un’inquadratura e, nello stesso tempo, privando il pubblico di alcune informazioni (quei controcampi mancati), si ha un incameramento del clima emotivo da parte del pubblico stesso.

Two Lovers

Come riportato da Michael Ondaatjie in un’intervista fatta allo stesso Murch, questo espediente, «lo shock del silenzio» è tipico della narrativa e permette di determinare «il tono morale dell’intero film» e spesso rappresenta «l’istante in cui si decide tutto». Questa tecnica, che “sporca” il montaggio classico, serve allora, nel cinema di Gray a sottolineare il tessuto portante del film stesso, composto da esistenze colpite, dall’obiettivo, nel momento critico della scelta. Se ogni film nella storia del cinema è caratterizzato da un eroe che prende delle scelte, che conducono avanti l’azione, qui non abbiamo un prima o un dopo, ma solo la lacerazione stessa della scelta colta in tutta la sua crudezza.

In Two Lovers, ispirato da Le notti bianche di Dostoevskij, la macchina da presa, in uno stile che molto deve anche ad Antonioni, ci invita nei paesaggi vuoti e sperduti di New York (sua solita location) a scoprire la bufera che si nasconde e che si agita dentro l’animo di un personaggio alla deriva, inattivo, pieno di sogni e privo di speranze (esattamente come Resnais dice di Antonioni e de L’eclisse). Ci guida nell’esistenziale incomunicabilità di uomo che ha solo lo sguardo, come Monica Vitti in Deserto rosso, per esprimere il suo bisogno di cercare il calore di una vita che appare svuotata. Al centro di questo dolore, che sembra l’asse portante del film, c’è Leonard (alias Joaquin Phoenix), un sopravvissuto viandante romantico, rinchiuso in una vita che lo soffoca, come evidenzia la struttura registica quasi “voyeuristica” (i personaggi sono spesso incorniciati tra gli infissi delle porte o delle finestre). Quest’ultima serve a immergere ancora di più lo spettatore in un’atmosfera claustrofobica, la stessa vissuta dal nostro protagonista, la cui situazione è perfettamente sottolineata da una delle sequenze iniziali.

Two Lovers

La macchina da presa segue la schiena di Phoenix, mentre si accartoccia su se stessa, bucando lo schermo sia per la ferinità del gesto, sia per il modo in cui la luce inquadra il corpo di Leonard, che immerso nell’ombra s’incurva dentro uno spiraglio di luce. La luce che esclusa la sequenza d’apertura, era impostata su tonalità più calde, come il giallo, qui vira su tonalità più fredde. In particolare, l’occhio viene attirato dal grigio-azzurro di una finestra del palazzo di fronte alla camera da letto del protagonista. Tale rima visiva, che riprende il piano cromatico dato dall’acqua a inizio film, lavora inconsciamente nello spettatore. Infatti, alcune sequenze successive Leonard è inquadrato mentre, con lo sguardo fisso verso l’obiettivo, osserva quella stessa finestra in cui, riflessa in uno specchio, s’intravede Michelle (Gwyneth Paltrow), la classica femme fatale. Nella stanza del protagonista regna l’oscurità. Una sola luce illumina la illumina, quella che viene dall’appartamento di Michelle, appartamento che ogni volta che è inquadrato richiama alla mente Night Windows di Hopper, ma soprattutto, anche sotto il punto di vista cromatico, Gli intoccabili di Brian De Palma.

Ritornando al discorso prettamente “murchiano” dei personaggi, che nei film di Gray sono colti crudamente nel momento stesso in cui devono compiere una scelta, nel caso di Two Lovers, Leonard dovrà scegliere se cominciare a vivere o continuare a sopravvivere. Questo dilemma sarà esemplificato dalla presenza di due donne: Michelle e Sandra (Vinessa Shaw). Non solo sono l’una l’opposto dell’altra a livello fisico, ma sono contrapposte anche a livello stilistico-visivo. La prima è caratterizzata da una luce glaciale e leggermente sovraesposta. La seconda, invece, da una luce calda, gialla e ricca di ombre, perché rappresenta la sopravvivenza e non la vita. È un bozzolo rassicurante, eppure oppressivo. Sandra è raffigurata, a livello fotografico, come la madre (Isabella Rossellini) dello stesso protagonista, che lo spettatore scopre ripetutamente mentre spia il figlio dalla fessura della porta, in un gioco di scatole, di specchi, di meccanismi metateatrali, dove Leonard sopravvive, ma non vive, come un burattino in una vita che non è la propria, ma solo una finzione, in cui si è degli intrusi, degli spettatori.

Two Lovers

Entra così in gioco un tema centrale per il regista newyorkese: la famiglia, di cui, kafkianamente, sono analizzate le sfumature più negative. Infatti, il suo è un cinema di figli maceri che vagano in un gioco di luci e ombre. Figli con padri troppo duri (Little Odessa; We Own The Night; Ad Astra) e madri troppo deboli (Little Odessa; The Yards) od opprimenti (Two Lovers) o talvolta assenti (The Immigrant; The Lost City of Z e Ad Astra). La famiglia rappresenta, dunque, un qualcosa di nocivo, da cui bisogna scappare. In Two Lovers l’unica via di fuga è data da Michelle. Un personaggio, come Leonard, aggrappato a una vita che sembra, pian piano, lasciarla cadere nel baratro. Entrambi sono incastrati in un meccanismo di dolore e solitudine.

Riprendendo il collegamento con Antonioni, se ne L’avventura Claudia vorrebbe amare ed essere amata, ma non ci riesce, i personaggi che popolano il film di Gray, invece, amano chi non li ama e sono amati da chi non amano. Sono dunque intrappolati in un meccanismo di sopravvivenza e non di vita. Di falsità e non di realtà. Ciò è sottolineato in un montage, in cui, tra varie foto che scorrono di Leonard e Sandra, in una ricordano Les Amants di Magritte. I due amanti con il volto coperto, che nascondono le proprie emozioni, che nascondono il loro dolore al meglio e che fingono che tutto vada bene, quando in realtà stanno solo navigando verso un falso lieto fine.

Two Lovers

Il falso lieto fine delinea, insieme alla tematica della famiglia, il nocciolo della cinematografia di Gray. Un cinema di figli che cercano, strusciando agonizzanti in mezzo al fango, un proprio posto del mondo e un proprio lieto fine. Quest’ultimo, secondo il regista newyorkese, ha un prezzo troppo alto e perciò i suoi eroi comuni, avvolti nelle tenebre e nella freddezza dello sguardo cinico della macchina da presa, hanno poche chance di vittoria e si ritrovano spesso sopraffatti dalle conseguenze che la ricerca della felicità comporta.

I personaggi di questo mondo lacerato scelgono quindi di non scegliere e di tornare nell’oblio iniziale, sebbene indietro non si possa tornare. Scelgono che vivere è troppo doloroso. Scelgono che la redenzione non è possibile. Scelgono un mondo di padri e madri, di persone di una generazione passata, di cui loro devono seguire le orme, sebbene quelli siano abiti non loro e anzi pieni di spine. Scelgono, dunque, di non vivere, ma di sopravvivere in un falso lieto fine. A tale “legge” fanno eccezione Little Odessa, dove non c’è neanche la parvenza del lieto fine (il finale è gelido e spiazzante); The immigrants, che prevede due finali (uno più luminoso, oltre la finestra, e un altro cupo, dentro lo specchio) e Ad Astra, dove il protagonista paga pesantemente la sua scelta, ma Gray lascia intravedere uno spiraglio di speranza (elemento sottolineato anche dal cambio della fotografia nella final image).

Two Lovers

Nella sequenza finale di Two Lovers parte una musica: Sola, perduta, abbandonata dalla Manon Lescaut, non a caso un’opera di Puccini che tratta dell’amore, del dolore e della morte. Le note, i gemiti strozzati, le onde. Leonard guarda il mare. Lo stesso mare che a inizio film richiamava Il monaco in riva al mare e Il viandante sul mare di nebbia di Friedrich, ma questa volta non c’è nulla di vagamente “romantico”. È notte e la scelta non è casuale: «la notte non è come il giorno (…) la notte può essere un momento terribile per la gente sola quando la loro solitudine è incominciata» (Addio alle armi, Hemingway). La solitudine di Leonard è incominciata, perché decide di arrendersi. La sua figura, sfocata e malandata, si allontana. Lo spettatore assiste alla fine di un sognatore, che, come descrive Dostoevskij ne Le notti bianche, è qualcuno che preferisce «nascondersi persino alla luce del giorno». Come il romanziere russo (ma anche come Freud e Bergson), Gray affonda un bisturi negli abissi della coscienza rivelando il Bene e il Male che dentro all’uomo formano un nodo inestricabile (tratto che si nota soprattutto in Little Odessa nella figura di Joshua, in We Own The Night nella figura di Bobby, in The Immigrant nella figura di Bruno e in tutto Ad Astra, dove diventa, insieme al concetto nietzschiano di oltreuomo, il tema portante del film).

Quello che ci viene mostrato è un mondo dominato dalle ombre che giocano in perfetta armonia con l’animo dei suoi personaggi. Viandanti romantici che vagano nell’oscurità, guidati dal tumulto delle loro passioni in un mondo lacerato, che cade a pezzi. Sempre ne Le notti bianche di Dostoevskij leggiamo: «tutto un regno di fantasticherie è crollato senza lasciar tracce, senza rumori, né scricchiolii, è svanito come un sogno, ed egli stesso non ricorda ciò che ha sognato», solo che qui il nostro sognatore non riesce a scordarlo e continua a sentire il sapore del dolore. A dirci ciò è lo sguardo in macchina finale: vuoto, privo di speranze, che ci spinge a guardare l’inquadratura successiva con gli stessi occhi disillusi di Leonard. La macchina rimane ferma, sebbene zoommi lentamente all’indietro, come a segnarci che ormai non si può più fare nulla per aiutarlo. Di sottofondo si sente O Lola ch’ai di latti la cammisa tratta da La Cavalleria Rustica, opera, composta da Mascagni, sulla disperazione, sull’abisso implicito nell’essere umano.

In conclusione, Two Lovers è un film sulla famiglia, sulla scelta, sul dolore, sull’incapacità di amare ed essere amati. È un tipo di cinema che affronta le radici più profonde e archetipiche dell’esistenza umana e del mezzo cinematografico nella sua forma narrata piena di silenzi e incertezze e che proprio per questo incanta e sa amare e lasciarsi amare.

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