I figli di Sam, la recensione del documentario su Netflix

I figli di Sam su Netflix

La figura del serial killer appare di per sé come qualcosa di filmico, legato a un universo irreale in cui la fantasia può immaginare delle trame, ordinare le vite e le morti secondo un senso. Ci si dimentica spesso che la realtà supera sempre la fantasia, e che la figura del serial killer è tanto prolifica quanto documentata: la sua forza cinematografica, come ci mostra I figli di Sam (qui il trailer), è riflesso dell’impatto destabilizzante che veri serial killer hanno avuto nel corso degli anni.

E destabilizzante è la storia di David Berkowitz, uno dei primi serial killer propriamente detti, che terrorizzò l’America negli anni settanta con degli omicidi dal modus operandi piuttosto ordinario: colpi di pistola a vittime apparentemente casuali. Se la figura è già nota per la fortunata serie Mindhunter, in cui compariva all’interno di una ben più ampia casistica, meno nota è la fenomenologia di questi omicidi, che pure non si distinguono per brutalità o inventiva. L’impatto che può avere avuto, sui cittadini di un’America ancora molto ingenua e perbenista, è ben ricostruito dalla voce narrante che si preoccupa tanto di descrivere gli omicidi quanto il contesto culturale.

Cosa ha significato Berkowitz per la popolazione, per la stampa, per la politica? I figli di Sam, con un’impostazione squisitamente classica, si preoccupa di analizzare tutto questo, intervallando la voce narrante a interviste agli ormai anziani protagonisti di quel caso, reduci di un fenomeno che sarebbe poi esploso negli anni successivi. Ma non c’è soltanto paura: il documentario è anche attento a mostrare l’operazione mediatica che accompagnò il fenomeno, e che non scemò nemmeno al calare del mistero, quando Berkowitz venne preso. Raggiunto il climax, la tensione de I figli di Sam non scende: la spiegazione di Berkowitz sembra portare verso l’instabilità mentale, lasciando così un vuoto significativo che è forse la caratteristica più destabilizzante.

Affermando di agire spinto dalla voce soprannaturale del cane del proprio vicino, rappresentante di un non ben specificato demone, Berkowitz beffa tutti; smarcandosi da qualsiasi nesso causale, il mite postino (che salutava sempre, come affermano i testimoni), getta nel caos l’America, che reagisce nel modo più viscerale, lo stesso che ancora vediamo in casi simili.

Ma la cattura non basta: il giornalista Maury Terry, che più di tutti si interessò al caso, non sembra soddisfatto. In quella che, simbolicamente, era diventata una battaglia tra il bene e il male, lui non vede che una semplificazione. L’arresto di Berkowitz non placa tutti i dubbi sul caso e sembra più simile a un capro espiatorio, un processo di fisiologica espiazione in cui l’America può ottenere giustizia, e l’ordine può essere preservato. Stufo del circo mediatico, capace soltanto di avvelenare le coscienze, e della grossolana indagine, Maury Terry si concentra sui fatti. Indagando sul mistero che l’ossessionò, ci accompagna in un viaggio verso l’oscurità che, grazie a un’impostazione rigidamente documentaristica, non tradisce la realtà ed è, quindi, estremamente interessante.

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