The Handmaid’s Tale, la recensione della seconda stagione

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Le prime inquadrature della seconda stagione di The Handmaid’s Tale (trailer) ci riportano con forza nel mondo distopico creato da Margareth Atwood, rafforzato dal gioco magistrale di chiaro scuri che rappresenta un chiaro riferimento al viaggio “verso l’oscurità o verso la luce” che Difred (Elisabeth Moss) dovrà affrontare entrando nel buio di un furgone, scortata dagli “occhi”. Nella sequenza successiva, invece, la fotografia diventa asettica, proprio per evidenziare il clima di violenza e di paura che caratterizza la repubblica di Gilead: un mondo in cui la ribellione deve essere repressa ad ogni costo e dove non è permessa nessuna forma di grazia per quel gruppo di ancelle che ha deciso di attuare una protesta passiva volta a salvare una di loro.

Se nella prima stagione vediamo molte scene di violenza, fisica e psicologica, implicite ma non per questo più delicate, nella seconda stagione la violenza è tangibile, ancora più cruenta, e messa davanti agli occhi dello spettatore in tutte le sue forme, anche solo attraverso piccoli gesti o frasi che creano orrore e angoscia, il marchio di fabbrica di questa serie. Dopo aver preso coscienza delle dinamiche, della quotidianità, della società e dei riti messi in atto da questa nuova dittatura a stampo teocratico, volta a riportare in auge i “vecchi valori”, iniziamo a scorgere una piccola luce: una speranza che di fatto muoverà tutta la seconda stagione. La consapevolezza dell’ingiustizia del nuovo ordine porterà alla nascita di una resistenza, di una rete di contatti dove ancelle, marte, mogli e anche alcuni uomini, metteranno in gioco la loro vita in nome della libertà pura in ogni sua forma.

A capo della resistenza c’è ovviamente Difred che, riappropriandosi del proprio nome, e di conseguenza della propria identità, è pronta a rischiare il tutto per tutto pur di mettere un punto alla sua sofferenza e scappare in Canada. La sua voglia e i suoi propositi di evasione dovranno tuttavia presto confrontarsi con il ritrovamento della figlia Hannah (Jordana Blake), anche lei nelle mani del regime e data in affidamento ad una famiglia di comandanti. Il percorso di Difred (June, prima dell’avvento di Gilead) è un viaggio caratterizzato dalla sofferente consapevolezza.

Ruolo chiave in questa stagione è rappresentato dal personaggio di Serena Joy (Yvonne Strahovski), la moglie del comandante a cui Difred/June è stata assegnata fin dalla prima stagione. È una donna costantemente divisa tra il desiderio egoistico di essere madre e la disdicevole consapevolezza di aver contribuito alla creazione di un mondo in cui le donne, e una futura figlia, non troveranno mai il giusto spazio, tra l’essere una moglie ligia ai doveri e il vedere la propria potenzialità relegata ai margini. Il rapporto tra Difred/June e Serena è caratterizzato da un elegante intrecciarsi di momenti fatti di odio e comprensione reciproca.

Nella serie trovano spazio altri personaggi che, attraverso l’alternarsi di flashback e del presente, creano una coralità di storie e di linee narrative, pronte anche ad intrecciarsi, che renderanno lo spettatore ancora più consapevole di cosa significhi essere una donna nella società di Gilead, un essere umano pronto a tutto pur di vederla crollare, oppure un membro devoto, desideroso che questa società duri per sempre: le ancelle Diglen/Emily (Alexis Bledel) e Diwarren/Janine (Madeline Brewer), i comandanti Fred Waterford (Joseph Fiennes) e Joseph Lawrence (Bradley Whitford), Moira (Samira Wiley), Luke (O.T. Fabenle) e Zia Lydia (Ann Dowd), sono solo alcuni dei personaggi a cui è affidato questo importante compito.

La stagione, disponibile su TIMVISION, è caratterizzata sempre da una regia riconoscibile e una fotografia minuziosamente dettagliata. Vede inoltre la costante alternanza di momenti carichi di tensione psicologica ed emotiva e attimi di momentanea distensione, che fanno crescere nello spettatore la consapevolezza che la speranza non sia ancora completamente perduta.

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