The Host, la recensione del film su Netflix

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Dopo essersi immersi nella filmografia completa di Bong Joon-ho e aver tenuto da conto della complessa e stratificata rete che avvolge i suoi film, dentro e fuori, appare evidente senza ombra di dubbio che The Host (2006, Trailer), tra Memorie di un assassino (2003) e Madre (2009), non è il classico B-movie tutto effetti speciali e poca sostanza. Infatti –  se in molti film su Godzilla e King Kong abbiamo un mostro gigantesco che distrugge la solita sfortunata città e terrorizza i suoi piccoli e inutili abitanti, impegnanti a ritirarsi dalla battaglia mentre l’eroe di turno trova un modo per sconfiggere la ginormica creatura – The Host è la miglior negazione del B-movie, nonché anticipatore di altro del regista. Il film di Bong Joon-ho è un ibrido che sicuramente tiene conto delle passate fantahorror e disaster stories – alcune eccezionalmente trash, in cui non si fa neanche in tempo a uscire di casa che subito il kaiju (in italiano: “strana bestia”) ti schiaccia o ti mangia – ma al contempo si allontana enormemente dalle medesime, mediante un continuo compenetrarsi di apocalisse e grottesco.

In un freddo laboratorio di Seul, quasi una sala torture alla Hostel di Eli Roth (2005) o alla Saw di James Wan (2004), vi sono due scienziati impegnati a svuotare soluzioni di formaldeide nel lavandino. Una volta raggiunto il fiume Han le sostanze chimiche infetteranno i pesci e genereranno un mostro di considerevoli dimensioni che terrorizzerà la città e costringerà il governo a impegnare l’esercito coreano e americano in una caccia tragica. Fin dalle prime inquadrature, tra cui un campo totale di inestimabile valore morale ed estetico che mostra l’enorme distanza tra l’Americano (colui che ordina di “svuotare”) e il Coreano (colui che perisce ed esegue), comprendiamo quanto Bong Joon-ho e sceneggiatori abbiano costruito un prodotto audiovisivo in cui la misteriosa creatura è solo un pretesto per narrare l’inettitudine dell’umanità e la sua incapacità di far fronte al disastro da essa creato. A subire le conseguenze sarà la popolazione – a cui tra l’altro sarà chiesto di limitare il traffico ed evitare contatti con quelle persone che hanno visto o toccato il mostro (un maestoso piano sequenza colora il primo attacco del kaiju e segue il popolo disperato sulle rive del fiume) al fine di contenere un’epidemia tanto chiacchierata dalla sanità – e più in particolare la famiglia protagonista di bassa estrazione sociale.  

Song Kang-ho, ad oggi ormai attore feticcio di Bong Joon-ho, non è il goffo e superficiale poliziotto di Memorie di un assassino, che tuttavia subirà un’elegiaca trasformazione nel medesimo, e neanche il disadattato Uomo di famiglia, disposto a tutto pur di sopravvivere, di Parasite (2019) quanto un padre squattrinato con un piccolo deficit cerebrale. Qui Park Gand-du, così si chiama il personaggio di Song Kang-ho, ha quello sguardo allucinato che riflette perfettamente il disagio di un uomo che mai si è sentito integrato, sia all’interno della famiglia biologica, sia nella più ampia famiglia nazionale. Egli è un loser dai capelli biondi che si armerà di fucile e buona volontà per ritrovare la figlia scomparsa, inizialmente creduta morta perché inghiottita dalla creatura; sarà una telefonata improvvisa della piccola a riaccendere un barlume di speranza.

La folle missione di salvataggio di Park Gand-du per recuperare la figlia non è dissimile dalle peripezie di Hye-ja, che in Madre (2009) ricerca indizi per provare l’innocenza del suo unico figlio, e di Curtis, che in Snowpiercer (2013) guida la ribellione dalla coda alla testa della “locomotiva eterna” per sovvertire il sistema delle classi sociali e, indirettamente, salvare i futuri figli dell’umanità. In questo modo si disvelano i fili nascosti – l’inquinamento, la famiglia di bassa estrazione sociale, i rapporti genitori e figli… – che sottendono l’intera filmografia di Bong Joon-ho e che si aggrovigliano di film in film, fino alle diverse soluzioni conclusive mai completamente razionali e chiarificatrici. È per tutti questi motivi che The Host non è un B-movie e, come tutti gli altri film del regista coreano, si concluderà senza alcuna spiegazione certa,  a metà strada tra la Realtà e il Sogno.

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