Le strade del male, la recensione del film su Netflix

Le Strade del Male

Le strade del male, scritto e diretto da Antonio Campos, è l’ultima delle grandi produzioni Netflix nell’epoca del COVID-19. Tratto dall’omonimo romanzo del 2011 scritto da Donald Ray Pollock, il film fu annunciato sul web ad agosto tramite un intrigante trailer (visionabile qui), che rivelava l’enorme potenziale del progetto. Le immagini ben definite, le premesse inquietanti e la grande quantità di volti noti sembravano presagire un thriller di tutto rispetto, se non uno dei migliori dell’anno. Sfortunatamente, il prodotto finale si rivela fin da subito come un’opera sterile e vuota, con poco o nulla di interessante da dire. 

I pregi della pellicola, infatti, sono tutti racchiusi nel decente comparto visivo. La fotografia di Lol Crawley è pulita, semplice ed efficace nel guidare l’occhio dello spettatore attraverso l’ingannevole serenità campagnola del Midwest, mentre il certosino lavoro di scenografia e costume design dipinge in modo più che convincente il ritratto delle comunità hillbilly degli anni ‘50-’60. Ciò che fa crollare l’intera struttura di base de Le strade del male è la sceneggiatura, e ciò che più ne risente è lo sviluppo della tensione, dipendente dall’unione tra regia e recitazione, entrambe compromesse dalla debolezza dello script. 

Il plot della pellicola, di natura alquanto semplice e chiara, viene raccontato nel modo più maldestro possibile. Nulla viene lasciato all’immaginazione dello spettatore, la regola dello “show, don’t tell” viene costantemente infranta dall’invasiva voce narrante (voce, peraltro, dello stesso Donald Ray Pollock) che, talvolta, viene totalmente vanificata dalla scelta registica di mostrare su schermo ciò che è appena stato narrato in voice over, sotto forma di flashback.

Pessima la gestione della sottotrama dei serial killer (interpretati da Jason Clarke Riley Keough), un compendio di sequenze distaccate dagli eventi principali che, inevitabilmente, annoiano lo spettatore e decentralizzano lo scorrimento della fabula, eliminando qualunque possibilità di creare tensione. Il personaggio dello sceriffo Lee Bodecker (Sebastian Stan) non è altro che una macchietta, ancor peggio, un artificio narrativo per far sì che i due plot si incontrino in un non-colpo di scena già prevedibile dalla metà del film, culminando in una sequenza finale patetica, debole e colma di retorica spicciola. 

Gli eventi principali de Le strade del male prendono il via solo dopo un fiacco prologo della durata di 45 minuti e, sottraendo alla rimanente ora e mezzo le lunghe sequenze dedicate al subplot, lasciano agli interpreti principali troppo poco tempo per poter brillare. Tom Holland non convince affatto nel ruolo di un cinico ragazzo traumatizzato in tenera età dalla morte di entrambi i genitori, e Robert Pattinson è sprecato nei panni di un arrogante predicatore infatuato di ragazze minorenni, la cui enorme potenzialità di funzionare come antagonista è radicalmente minata da dialoghi al limite dell’inascoltabile e da una presenza sulla scena fin troppo breve. Particolarmente degne di nota le performance di Harry Melling e Mia Wasikowska, il primo decisamente sopra le righe e la seconda priva di qualsivoglia espressività, un dinamico duo che riesce a dare vita, verso la fine del prologo, a una delle scene più ridicole mai viste in un thriller. 

Nonostante ciò, la pellicola cerca in tutti i modi di generare shock nello spettatore, attraverso un utilizzo spropositato della violenza. La stessa violenza tipica dei peggiori remake dei classici dell’horror: gratuita, rivoltante e offensiva, senza nessun accumulo di tensione che la preceda e la renda efficace. Un tipo di violenza americano fino al midollo, utilizzato anche come mezzo per la crescita del protagonista, crescita che si contraddice, si interrompe e si risolve di fretta in un finale per nulla meritato. 

In conclusione, Le strade del male può solo apparire come un esperimento fallito. L’opera di Antonio Campos è un film che tratta lo spettatore come un bambino, senza lasciargli il tempo di pensare da sé. Una misera accozzaglia di orribili dialoghi e spudorata violenza che cerca di farsi scudo sotto uno scintillante mantello di belle immagini e belle facce. Una pellicola pretenziosa e vile che, secondo l’opinione di chi scrive, rappresenta un inno non proprio velato ai vantaggi conferiti dal Secondo Emendamento.

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