Horse Girl, la recensione del film su Netflix

Horse Girl

Il 7 febbraio è uscito su Netflix un nuovo film decisamente sui generis, in grado di spaziare tra lo psicodramma e la commedia romantica indipendente: si tratta di Horse Girl (qui il trailer), diretto da Jeff Baena e distribuito dalla piattaforma streaming. L’inusuale scrittura è frutto del lavoro a quattro mani del regista e di Alison Brie, interprete della protagonista Sarah (i due avevano già collaborato per The Little Hours, 2017). Nel cast sono presenti anche altri volti noti, come Debby Ryan, John Reynolds e Molly Shannon. Horse Girl è stato presentato in anteprima all’ultimo Sundance Film Festival, nota e importante manifestazione che celebra da decenni il cinema indipendente.

La trama, come accennato, può lasciare spiazzati. Sarah (Alison Brie) è una ragazza tenera e solare, quasi puerile. Le sue solitarie e monotone giornate si dividono tra un lavoro come commessa in un negozio di bricolage e le lezioni di zumba. Le serate, invece, passano quasi sempre in compagnia della sua dipendenza da Purgatory, una serie tv di dubbio gusto sul sovrannaturale. La spigliata e un po’ arrogante coinquilina Nikki (Debbie Ryan) guarda Sarah quasi con ribrezzo quando ogni sera, rientrando a casa, la trova immancabilmente sul divano, e cerca di smuoverla un po’ presentandole un ragazzo pacato e sensibile che sembra perfetto per lei.  

Ma questa atmosfera limpida da commedia romantica sulla social awkardness si copre di nubi nel momento in cui strani eventi iniziano ad accadere nell’appartamento di Sarah, fenomeni preoccupanti a cui si accompagnano anche inquietanti vuoti di memoria e sogni ricorrenti. Le coincidenze tra questi episodi al limite del paranormale sono tali che la ragazza, avviluppatasi in una spirale ossessiva, inizia presto a unire i puntini, ipotizzando bizzarre teorie. E a quel punto, come c’era da aspettarsi, tutti fanno fatica a dare credito a questa ragazza da sempre un po’ “fuori posto” la cui famiglia, per di più, è nota per essere costellata di casi psichiatrici.

Il film è un crescendo allucinatorio, che dalle solari riprese della prima parte culmina in sequenze oniriche che si collocano a metà strada tra un delirio immaginativo ed un’esperienza paranormale. Il mondo di Horse Girl  vede lo scorrere del tempo contrarsi in un susseguirsi di deja-vu che scalzano ogni saldo riferimento cognitivo. La scrittura punta soprattutto a disorientare lo spettatore, il quale si trova a dover decifrare una moltitudine di indizi contrastanti che a volte smentiscono e a volte avvalorano le teorie di Sarah.

Se lo spettatore si era quindi seduto comodamente sul divano aspettandosi un film d’evasione, non può che rimanere perplesso: Horse Girl propone ben poche letture della realtà, creando piuttosto altri interrogativi. Ma è proprio questo aspetto che può costituire un risvolto molto interessante ed originale. Infatti il tema della complessa questione (ancora oggi spesso irrisolta e controversa!) del posizionamento della psicopatia nella comunità di individui “socialmente inseriti” non viene sviluppato canonicamente attraverso l’evoluzione del rapporto tra la protagonista e l’ambiente che la avversa. Lo si fa invece cavalcando l’ambiguità che scaturisce dal sovrapporsi di incubo e realtà: come distinguere in fondo cosa è vero e cosa è solo illusorio, cosa è “normale”? Ci sono casi in cui evitare risposte certe è il miglior modo per indagare la vita nella sua autenticità.

Un altro caposaldo di Horse Girl è senza dubbio la brillante interpretazione di Alison Brie, che si articola con abilità nei molteplici registri del film senza mai scadere in un sentimentalismo che mal si adeguerebbe al tipo di riflessione proposta. Questa da sola potrebbe bastare a rendere convincente un film dove teorie complottiste e rapimenti alieni, anche se possono far storcere il naso, non vogliono assolutamente esaurire uno sguardo sulla realtà che è molto più penetrante di quanto potrebbe sembrare al primo impatto.

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