Hollywood, la recensione della miniserie su Netflix

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Fuori dal tempo, nel contemporaneo multimediale, la miniserie ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, Hollywood (dal primo Maggio disponibile su Netflix, qui il trailer), ripercorre lo stesso sentiero intrapreso da molte opere del nuovo millennio – tra cui C’era una volta a…Hollywood (2019) di Quentin Tarantino – e racconta, attraverso una sceneggiatura da manuale e contenuti mai stati così attuali, le vicissitudini di aspiranti artisti dello spettacolo cinematografico. Hollywood, tra le tante cose, accoglie quel sentore puramente tarantiniano del cinema come medium per riscrivere ciò che è stato e come mezzo di sublimazione delle tematiche contemporanee. Ciò incide sullo spirito del capolavoro di Murphy e Brennan, risultando nel complesso anche scomodo e poco convenzionale.

Se tuttavia Rick Dalton e Cliff Booth (rispettivamente Leonardo Di Caprio e Brad Pitt) in C’era una volta a… Hollywood sono già professionisti dello spettacolo che faticano a stare al passo con i grandi cambiamenti dell’industria, a partire da quel fatidico e sanguinoso 1969, i protagonisti di Hollywood (David Corenswet, Darren Criss, Laura Harrier, Jake Picking, Jeremy Pope e Samara Weaving) si catapultano, giovani senza esperienze lavorative, in quel sistema complesso e ipocrita che è la Fabbrica dei Sogni dell’immediato dopoguerra. All’interno del falso mito del Cinema Classico – promotore di un’America forte e sensuale (Vivien Leigh, George Cukor e il più volte nominato Humphrey Bogart) – si agitano i nostri poliedrici disperati, cacciatori di fama e successo e desiderosi di scalare la struttura monumentale della Hollywoodland.

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Jack Castello, Raymond Ainsley, Camille Washington, Rock Hudson, Archie Coleman e Claire Wood sono l’emblema della rivalsa e dei sognatori di ogni generazione. Sono l’archetipo dei Figli di tutte le epoche che si scontrano, perché così vuole la Storia, con i Padri costruttori di un paese marcio e poco avvezzo alle novità. Ma con loro il Cinema può cambiare! Il progetto che unisce le vite di questi aspiranti registi e attori, costretti per ragioni di sopravvivenza a sbarcare il lunario con incarichi fin troppo umilianti, è il lavoro sulla pellicola rivoluzionaria Meg, prodotta dalla Ace Studios. Lo sceneggiatore Archie Coleman si ispirerà al suicidio di Peg Entwistle e il regista Raymond Ainsley dirigerà un cast di italiani, afroamericani, omosessuali e rampolli frustrati dell’America benestante per cambiare “ciò che è stato” e offrire agli Stati Uniti un volto progressista, riesumando e omaggiando, tra le altre cose, attrici del calibro di Anne May Wong e Hattie McDaniel, cadute in disgrazia perché stranieri a casa di altri.

Ryan Murphy e Ian Brennan affondano le mani nella giungla d’asfalto della società hollywoodiana, dipingono con audacia e arguzia personalità affascinanti e umane fino al midollo e spingono la loro opera verso le vette postmoderne del possibile, non più solo verosimile. Quella di Hollywood non è soltanto una lezione coraggiosa sull’integrazione e sulla capacità di far fronte alle lesioni fisiche e psicologiche inferte dal mondo dello spettacolo (e quindi da parte di chi ha subito a sua volta, senza mai combattere), ma è un’operazione di riscrittura della Storia, che segue il sentore tarantiniano e colora il suo esserci attraverso l’indagine sulle infinite possibilità del medium cinema.

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Non basta più uccidere Hitler e gli schiavisti con Bastardi senza Gloria (Quentin Tarantino, 2009) e Django Unchained (Quentin Tarantino, 2012) o ripercorrere il passaggio muto-sonoro con The artist (Michel Hazanavicius, 2011), per riflettere sul passato e avere chiarezza sul presente. Quello di cui gli ideatori di Hollywood necessitano è ripercorrere uno dei momenti cruciali in cui è venuta a mancare, all’interno del mondo dello spettacolo tra le tante cose, il barlume di umanità che ancora oggi si ricerca. Complici evidentemente sono i padri e amici del cinema classico, da David Griffith a Humphrey Bogart, che hanno “mentito” raccontando storie fasulle e costruendo un impero in cui non possono avere spazio le minoranze etniche e l’orientamento omosessuale.

Hollywood diviene, con attenta riflessione, un grido alla libertà d’espressione e, più in grande, una lettera di perdono ai Figli. Grande spazio è concesso a quei personaggi “maturi”, tra cui i produttori e distributori del film Meg, anch’essi contagiati da soprusi e sofferenze, che troveranno un modo per espiare i loro peccati. È il caso di Jim Parsons, che lascia il nevrotico Sheldon di The Big Bang Theory per diventare il riluttante agente Henry Wilson, assetato di ricatti e perennemente incline alla soddisfazione prepotente degli impulsi sessuali.

In definitiva, Hollywood è uno splendido orologio svizzero che accoglie tra l’olimpo dei titani, secondo quel sentore puramente tarantiniano, i diseredati appartenenti ad un mondo conservatore che può rivoluzionare la sua anima e salvare quindi i suoi Figli. Tra questi proprio la bellissima Sharon Tate che, scampato il pericolo, invita il personaggio immaginario di Rick Dalton a bere qualcosa a casa sua. Se il Cinema può salvare la sua bella dalla violenza del Reale, allora può anche farle vincere l’Oscar, cambiando così il corso del tempo.

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