Squid Game 3, la recensione dell’epilogo su Netflix

Squid Game 3, la recensione di Dasscinemag

La terza stagione di Squid Game (trailer), annunciata come l’atto conclusivo di una trilogia simbolo del malessere contemporaneo, arriva carica di aspettative e consapevole del proprio peso mediatico. L’atteso epilogo della serie cult sud-coreana è approdato con tutti i suoi episodi su Netflix.

Dopo aver conquistato il pubblico con una critica feroce alle disuguaglianze sociali mascherata da gioco mortale, questa stagione finale alza la posta in gioco: non solo in termini di tensione narrativa, ma soprattutto nel modo in cui interroga la responsabilità individuale, il potere e la spettacolarizzazione della sofferenza. Il ritorno di Gi-hun (Lee Jung-jae), stavolta non più come semplice pedina ma come giocatore consapevole e – forse – carnefice, apre le porte a un finale che non cerca consolazione, ma verità.

In effetti, quest’ultima stagione finale è una continuazione della precedente. Hwang Dong-hyuk – creatore, regista e sceneggiatore della serie – sembra voler chiudere il cerchio non soltanto narrativamente, ma anche concettualmente. La sua ambizione è evidente: non limitarsi a un thriller distopico o a una critica sociale generica, ma costruire una riflessione profonda sul ruolo dello spettatore, del potere e dell’essere umano stesso. Hwang cerca di alzare il livello filosofico e politico del racconto, ma il risultato oscilla tra provocazione autentica e forzatura ideologica.

A dare inizio a questo terzo e ultimo capitolo è la fine del gesto eroico consegnato alla disfatta. Durante l’insurrezione, Seong Gi-hun, alias giocatore 456, viene ferito dalle guardie e poi ricondotto nuovamente nell’ormai ben noto dormitorio. Gi-hun, soggiogato dal peso di una responsabilità non elusa, esige vendetta per i suoi compagni uccisi. Ostinatamente continuano i giochi estremi, simulacri ludici della morte.

Il protagonista un tempo mosso da ideali forse ingenui ma puri è ora l’ombra di sé stesso — un essere in cui il desiderio di vendetta ha scavato un solco profondo, consumandone lentamente l’umanità. Un soggetto alienato, per il quale la giustizia non è più un fine, ma un pretesto per legittimare la propria furia. Ogni scelta, ogni gesto, è vincolato a un’ossessione che si spaccia per volontà, ma che in realtà è un abisso. Gi-hun inseguendo la vendettta, ha smarrito l’orizzonte della libertà, ormai non lotta più per redimere il mondo; piuttosto, si unisce moralmente alla giostra crudele dov’è costretto.

Non si tratta più solo di sopravvivere, ma di comprendere e conformarsi al meccanismo che rende i giochi presenti possibili. Il regista ci invita a osservare un mondo in cui il confine tra vittima e carnefice è ormai sfumato, dove ogni scelta – anche quella apparentemente morale – è già compromessa dal sistema stesso. Gi-hun è in questa stagione una sorta di Prometeo disilluso: conosce il sistema, lo sfida, ma finisce per farsene strumento. Da Messia promesso, la sua ossessione per cambiare le regole dall’interno, lo trasforma in un personaggio inquietante, quasi a rappresentare una controfigura dei Front Man.

Squid Game 3, la recensione di Dasscinemag

I giochi mortali della terza stagione riflettono questa nuova complessità. Non si tratta più solo di prove fisiche travestite da giochi per bambini, ma di veri e propri test morali ed esistenziali. Seppur mantenendo le modalità infantili ed elementari dei precedenti, questi sadici giochi mettono sempre più in luce le fragilità morali dei concorrenti ancora in gara. Nascondino, Salto alla corda, Calamaro in aria: ogni passo in avanti richiede un sacrificio personale, salire significa sacrificare rinunciare ad un pezzo di sé. Per vincere non basta sopravvivere: bisogna accettare di trasformarsi, a volte fino a diventare irriconoscibili. Il vero campo di battaglia non è il corpo, ma la coscienza.

Il destino della maggior parte dei giocatori era già prevedibile, sin dalla seconda stagione. La storia si dilata, nonostante il traguardo si faccia sempre più vicino, cerca nuovi personaggi da integrare nel fatidico meccanismo. Tra le figure più emblematiche, infatti, c’è quella della neonata, figlia della giocatrice 222, introdotta a metà stagione in un contesto volutamente destabilizzante. La bambina, costretta ad essere una vera e propria concorrente, diventa un pretesto etico, uno specchio in cui i giocatori riflettono le proprie convinzioni, le proprie paure, la loro capacità di sacrificio. La neonata non parla, non sceglie, ma costringe tutti gli altri a mostrarsi per ciò che sono.

La regia abbandona i colori sgargianti e pop delle prime stagioni per un’estetica più spoglia, quasi astratta. Gli ambienti sembrano sospesi nel nulla, come se il gioco si svolgesse in un non-luogo, o dentro la mente dei partecipanti. Anche questo è intenzionale: non c’è più bisogno di mascherare l’orrore con l’estetica infantile. Ora il gioco è nudo, e lo è anche lo spettatore.

Il finale non offre redenzione. Non c’è un trionfo del bene, né una liberazione. C’è solo un accenno di umanità. Ma anche quello risulta poco chiaro. Un finale inevitabile, degno riflesso della scacchiera fatale della condizione umana. Squid Game non è una serie sull’eccesso, ma sulla normalità dell’orrore. Il vero gioco è quello che viviamo ogni giorno nel mondo reale, in silenzio. Chi guarda senza agire, chi sopravvive calpestando gli altri, chi giustifica le disuguaglianze con la meritocrazia, sta già partecipando. D’altronde, noi non siamo cavalli.

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