#ROMAFF15: Small Axe, la recensione

Small Axe

«Penso che qualcuno debba fare da ponte e, quando lo fai, ti rendi conto di essere solo» (Small Axe, White, Red and Blu). Questa di sicuro è la frase simbolo di tutta la filmografia del regista britannico e Premio Oscar Steve McQueen. Una filmografia che si fa leva sulle terre (o anime) bruciate, affinché possano rigermogliare: dal caso di Hunger sulla questione irlandese; a quello di Shame sul senso di vuoto di un newyorkese che, in risposta alla vita moderna, fin troppo fredda e frenetica, risponde con un’estrema ossessione sessuale al fine di nascondere la propria dipendenza affettiva; al suo 12 anni schiavo sulla schiavitù degli afroamericani negli Stati Uniti durante la guerra di secessione; fino a Widows sul dolore feroce delle vedove di alcuni gangster, lasciate da sole da una situazione politica indifferente e solo appariscente.

Tutto ciò si ritrova, in modo estremamente elegante, forte, sperimentale e autoriale, in Small Axe (trailer), miniserie antologica, comprensiva di cinque episodi (o film?), che, prima di approdare su Amazon Prime a metà novembre, ha trovato il suo trampolino di lancio nella Selezione Ufficiale della quindicesima edizione della Festa del Cinema di Roma (presentando in particolare i primi tre episodi: White, Red and Blu; Mangrove e Lovers Rock). Con una lente, come al suo solito, prettamente analitica e quasi scientifica, nella sua oggettività, il regista britannico decide di affrontare una cornice già ampiamente trattata (anche da egli stesso nello specifico in 12 anni schiavo e in Hunger): quella delle discriminazioni raziali e delle minoranze, ma stavolta decide di giocare in casa.

In una Gran Bretagna caratterizzata da una luce estremamente limpida e bianca, McQueen, stravolgendo la grammatica dei piani, si avvicina e si allontana da una situazione che sottolinea essere ampiamente reale e passata, ma alla fine pregnante nella sua contemporaneità. Se la partenza sono gli scontri tra la popolazione giamaicana/britannica e la polizia, l’obiettivo è tanto contrastante quanto lo stile delle inquadrature. «Mangrove è il tuo fardello che devi portarti da solo», viene detto al protagonista di Mangrove, gestore di un ristorante, preso d’assalto dai poliziotti bianchi di Nothing Hill. Mangrove però non è solo un ristorante. Mangrove, soprattutto nel contesto corale non solo dell’episodio ma dell’intera miniserie, è la popolazione nera e britannica, costretta a essere «inglese degli inglesi», senza poter trovare da nessuna parte la propria identità o una salvezza non amara.

Small Axe

Amari sono, infatti, i finali di questi episodi, tratti da fatti realmente accaduti, che vogliono portare lo spettatore a una riflessione che possa riecheggiare, senza alcuna manomissione. Così la regia parte attaccata ai suoi personaggi, per poi passare dai piani ai campi e ritornare ad angolature spezzate, di spalle ed estremamente dettaglianti (come il pestaggio in White, Red and Blu, visto solo da una sottile fessura e solo in parte). Inquadrature che spesso lasciano intatto l’ascolto di violenze e speranze, senza permetterne però un’entrata in campo a livello visivo. La fotografia, supportata dal montaggio (caratterizzato da numerosi match cut e mickey mousing), sottolinea egregiamente tutto questo, sbalzando da luoghi estremamente illuminati ad altri estremamente bui. La freddezza della sua luce, inoltre, che gioca tanto sul bianco accecante, quanto sul blu e il verde, si trova a lottare con i colori caldi della scenografia e degli oggetti di scena. Oggetti e scenografie caratterizzati dal rosso e dal giallo. Colori, appunto caldi, ma che, a più tratti, in questi “film episodici”, sono usati come etichette e leve discriminatorie contro i protagonisti stessi da parte della “cultura bianca” (in tal senso, d’altronde, diventa ancora più pregnante l’utilizzo quasi accecante della luce bianca e fredda che cerca di sottomettere e manipolare i colori presenti nel profilmico).

Così, mentre la macchina da presa rimane ferma più a lungo del normale in inquadrature potentemente visive e drammatiche, ma riprese in maniera fredda, McQueen, con il suo debutto nel modo “seriale-televisivo” (se ancora si può parlare di televisione, soprattutto in un caso particolare come questo), decide di dare un corpo a tutto ciò che ha visto e vissuto e che, purtroppo, può essere ancora visto e vissuto. Il regista e sceneggiatore britannico, tra carrellate laterali, dolly e un utilizzo estremamente saggio soprattutto dello stile visivo/cinematografico, fa della sua serie antologica uno schiocco all’interno di una situazione perpetua. Uno schiocco che, sebbene forse possa essere drammaticamente compreso a fondo solo da chi ha vissuto certe esperienze razziste, punta a parlare a tutti coloro, come sottolinea soprattutto una delle sequenze iniziali di Mangrove, che si sono sentiti esclusi e soli per un qualsiasi tipo di differenza fisica, sociale, culturale o ideologica. Steve McQueen con Small Axe manifesta nuovamente la sua elegante bravura nel mostrare un cinema, come già anticipato, di anime bruciate in attesa di una nuova rinascita. Anime che, sì, qui vediamo sullo schermo, ma che in realtà non facciamo che vedere tutti i giorni appena usciti fuori dal letto.

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