#RomaFF19: Spirit World, la recensione del film di Eric Khoo

Spirit World, recensione del film di Eric Khoo

Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2024 nella categoria Progressive cinema, Spirit World è il nuovo film del regista singaporiano Eric Khoo, coprodotto da Giappone, Francia e Singapore.

Spirit World narra l’intreccio di tre storie diverse. Claire Emery (Catherine Deneuve) è una celebre cantante francese, in tour a Tokyo per quello che molto probabilmente sarà il suo ultimo concerto; la sua voce, per quanto ancora giovanile e vigorosa, non sembra più conciliarsi con l’età ormai avanzata. Yuzo (Masaaki Sakai), un suo anziano ammiratore, conserva accuratamente una collezione di vinili dell’artista francese nel suo appartamento a Tokyo e, puntualmente, ogni sera, un disco viene scelto dalla collezione per risuonare nella stanza. Infine, troviamo il figlio di Yuzo (Yutaka Takenouchi), che trascorre le proprie giornate fra alcol e tentativi di abbozzare nuove storie nel suo studio di film d’animazione.

L’entrata in scena dei personaggi evoca allegoricamente il ruolo che ricopriranno nella storia. Claire sta portando dal veterinario l’amato cagnolino, accompagnandolo e assistendolo amorosamente verso il fine vita; della protagonista veniamo a sapere che ha perso la propria figlia diversi anni fa e che mai ha smesso di cercarla, di “parlarle”, di dimenticarla. Yuzo, che sappiamo essere amante della musica, viene presentato mentre entra in un ristorante che fa spettacoli dal vivo: è elegante, si siede sullo sgabello di un maestoso pianoforte e comincia a suonare; ma suona solo alcune note, perché il suo compito è solo quello di accordare lo strumento, assicurarsi che possa performare al meglio prima dello spettacolo. Yuzo è un personaggio che si muove dietro le quinte, opera quando nessuno guarda, eppure si assicura che lo spettacolo sia pronto per l’esibizione, che ogni organo sia ben oliato e che la storia possa cominciare. Ed è proprio con il terzo personaggio, suo figlio, che la storia ha inizio: egli emerge goffamente dal letto di bottiglie vuote, ma la sua indole di regista di film d’animazione lo porterà a costruire e animare l’intera storia.

spirit world, recensione del film

Questa ha inizio con un viaggio: Yuzo ha chiesto a suo figlio di portare una vecchia tavola da surf alla sua vecchia compagna, madre del protagonista, con cui non si sente da anni. Ad accompagnare il protagonista sarà la guida del padre e di Claire.

Il tema di Spirit World, come suggerisce il nome, ma senza fare neanche troppi spoiler, è la narrazione del legame che sussiste fra vita e oltre vita, in particolare la credenza che si ha della possibilità o meno di poter dialogare con i propri cari defunti. Centrale nel film, infatti, è la festa giapponese Obon, dove questi ultimi possono tornare nel mondo terreno. Nel caso del protagonista, questo incontro determinerà il suo destino e il suo futuro, non solo da regista, ma anche di figlio che che deve recuperare un legame perduto con i propri genitori.

Nonostante un incipit profondo, che mette in gioco delle trovate stimolanti, il film di Eric Khoo sembra arenarsi su una narrazione lenta, manchevole e pericolosamente noiosa. L’elemento che destabilizza l’integrità della storia e che spegne l’entusiasmo iniziale è proprio una lacuna di originalità e causalità degli eventi raccontati, accompagnata da un ritmo statico. Durante il film si può incorrere nella sensazione di non cogliere il perché delle cose, di non comprendere quale scopo stia perseguendo il protagonista, quale sia il suo bisogno recondito per riacquisire lucidità, quale sia il legame concreto che unisce i personaggi o come esso si sviluppi nel corso della storia. I colpi di scena non destano entusiasmo, né sembrano aggiungere qualcosa di nuovo alla vicenda, anzi: sembrano privati del loro potenziale.

Alcune scelte narrative appaiono addirittura incoerenti o troppo oscure per essere realmente comprese, ammesso che abbiano una valida ragione di esserlo. Purtroppo il film sembra vittima di quel vizio di pensarsi autosufficiente per il solo fatto di portare in scena dei temi profondi, i quali però, se non declinati in storie originali e costruite, rischiano di rimanere senza contenuto: forme fini a loro stesse.

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