#ROMAFF15: Mainstream, la recensione

Un’esplosione ipnotica si avvolge intorno ai concetti della seconda opera di Gia Coppola: Mainstream presentato a Venezia e in seguito a Roma all’interno della selezione di Alice nella Città. Da video in stile “epoca del muto” a intermezzi decisamente “social”, il film in questione, con un ritmo e dei colori decisamente pop, si innesca nella mente dei propri spettatori, ponendo, quasi di soppiatto, diversi quesiti. Quesiti che, nel gelo dell’ultima sequenza, si ritrovano a giungere verso un labirinto monco, fatto d’immagini, tanti (forse troppi) concetti, ma senza risposte consolatorie.

Il clima del nuovo film di Gia Coppola è sicuramente tipico del pastiche dell’era postmoderna, che da una parte disintegra il linguaggio, ma dall’altra, volente o non, lo eleva alla massima potenza. Entra così in campo, in una prima lettura, il gioco di scambi tra il cinema delle didascalie (muto, senza parola, ma con una potenza espressiva massima) e quello delle gif (emoticon, reaction, visualizzazioni, commenti, numeri, sempre senza lingua, ma vuoti nei loro colori accesi e privi di significato). Due momenti storici simili per la loro assenza di logos o di un linguaggio classicamente strutturato, che però fanno della comunicazione, con valenze opposte, il loro cavallo di battaglia. Tutto ciò, nel modo in cui si delinea all’interno dello sviluppo narrativo, porta a una profonda riflessione sullo statuto stesso dell’arte.

Riflessione che si sviluppa sia in sequenze esplicite (quella al centro commerciale sul quadro di Kandinskij, dove Link, interpretato da un magistrale Andrew Garfield, esclamerà: «Mangiate arte. Ha un buon sapore»), sia con una modalità più velata, tramite battute o scene legate a tutt’altro, ma che non fanno altro che far domandare agli spettatori che cosa può significare fare arte o fruire l’arte. In quest’ultimo caso, particolare è l’esempio di quando Link domanda a Frankie, una frizzante e intensa Maya Hawke (Stranger Things 3), perché si fosse sottoposta a uno spettacolino nel pub dove lavora. Dopo che lei gli risponde «Lo sai che mi pagano per quello?», lui nota «Non mi sembrava ti stessi divertendo». Perciò, sorge spontaneo: l’arte va fatta per soldi o divertimento? Il film non darà una risposta e anzi in maniera agghiacciante sembrerà aggiungere sempre più spunti in che cosa l’arte, inseguendo la folla, si sta pian piano trasformando e su come si sta svuotando: «Vuoi fare arte o inseguire commenti di sconosciuti senza volto?» (si chiederà Jake, alias Natt Wolff).

Ci si interroga, quindi, sulla natura dell’arte, ma anche sulla antica questione baudelairiana legata ai gusti del pubblico, in questo caso contemporaneo. Non a caso, uno dei personaggi affermerà di non capire più il gusto delle persone, di non capire se le persone abbiano ancora gusto o se non siano solamente arrapate dal continuo dispiegarsi di immagini appetitose ma prive di sostanza. Tuttavia, questa è solo la prima di molteplici letture che Mainstream crea e sottopone ai propri spettatori in modo attuale ed eclettico. Se il passaggio dal sonoro ai video YouTube può avere una forte valenza artistica e linguistica, allo stesso tempo è interessante notare la funzione dello sguardo. L’intero film si apre con una delle didascalie che disegnano Frankie come una ragazza moderna con un gusto antico, quello appunto segnato visivamente e diegeticamente tramite l’utilizzo degli stilemi del muto. Pian piano, mentre viene sempre più inglobata dentro Link, queste didascalie scompaiono e contemporaneamente il punto della macchina da presa si sgancia e non segue più la giovane ragazza, ma lo scapestrato Andrew Garfield.

Lo sguardo femminile sparisce, viene tagliato totalmente fuori (doppiamente interessante è allora il discorso che Link fa sulla non esistenza di ciò che viene tagliato in fase di montaggio, e, quindi, Frankie esiste ancora?). Magicamente, colei con cui lo spettatore doveva immedesimarsi, in quanto protagonista, perde rilevanza, ma anche qui Gia Coppola non smette di stupire e, dadaisticamente, non si arrende alla possibilità di dare una vera risposta al pubblico. Si ha dunque uno sguardo finale di Link in macchina. Uno sguardo che tanto ricorda quello di Norman Bates in Psycho. Uno sguardo che, con la sua potenza e la sua fascinazione, ci induce a riflettere sul nostro rapporto con il personaggio di Link, verso il quale il meccanismo cinematografico ci induce a immedesimarci.

Che dire quindi? Con Mainstream Gia Coppola compone un film troppo ampio per essere digerito in una volta sola. Un film, o prodotto, che ossessivamente si riempie di immagini, spunti, riflessioni che non possono non avere una risonanza forte, sebbene straniante. E se, già dal titolo stesso, l’autrice ci immerge in un mondo “mainstream”, probabilmente citare Bukowski per commentare la visione stessa di quest’opera non può essere del tutto sbagliato. E, dunque, Mainstream alla fine è imperfetto, in quanto «la perfezione è un uccellino in gabbia che vive, mangia, caga e muore con il solo scopo d’essere ammirato», mentre il film di Gia Coppola vuole e deve «vivere libero, spiumato, infreddolito, denutrito ma libero».

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