
Ricordi di un passato da spia oppure fantasmi di un personaggio che tormentano un attore in pensione? Hélène Cattet e Bruno Forzani dirigono un giallo che suscita tante domande. Riflesso in un diamante morto (trailer), presentato in concorso alla 75ª edizione del Festival di Berlino, è un delirio tra il fantastico e il fumetto, un omaggio post moderno al giallo all’italiana, riscontrabile anche nella scelta di Fabio Testi come protagonista.
L’ambivalenza tra i generi e le forme utilizzate colpisce l’immaginazione dello spettatore portandolo, tra il vintage e il moderno, ad appassionarsi alla cruda storia di un anziano, John, che vive in un hotel sul mare, pur non potendo permetterselo. I suoi ricordi mostrano un passato pericoloso da agente segreto, coinvolto in traffici di diamanti e di petrolio, un passato di perdite e di rinunce. Serpentik è l’unico nemico che John non è mai riuscito a fermare, un’ombra che continua a tormentarlo nel presente. Quando la ragazza della stanza accanto viene ritrovata morta, i sospetti di John ricadono subito su di lei, ignaro che stavolta potrebbe essersi sbagliato. Le vicende sono così fantastiche che John sembra essere addirittura un attore e i suoi mandanti dei produttori cinematografici.
A questo punto inizia la parte più interessante del film, nella quale lo spettatore deve scegliere se continuare a guardare le prodezze dell’agente John o di partecipare a un metacinema in cui si assiste al declino di un attore, costretto a combattere a vita contro la sua ultima nemica, Serprentik. La bellezza di questa ambivalenza sta nel fatto che lo spettatore non deve necessariamente scegliere, può seguire entrambe le vicende, immergendosi nei ricordi di un attore che non riesce a superare il suo ultimo personaggio o di un agente che rischia ancora la vita per sconfiggere Serpentik.
Le scelte registiche sono coraggiose e accattivanti, mischiare i registri colpisce anche in maniera inconscia, dopo aver visto questo film ci si ritrova inevitabilmente a ripensarci. L’occhio di chi guarda rimbalza su dei riflessi negli specchi, nei diamanti, passa attraverso sigarette, cocktail: vedere o essere dentro il film sono la stessa cosa. Cattet e Forzani sperimentano su questo genere già da Amor del 2009, ormai diventato un cult, ma è la presenza di Fabio Testi a renderlo un omaggio all’immaginario del poliziesco. Il delirio di John è coinvolgente e i diversi salti temporali nei suoi ricordi sono disorientanti, alcune volte anche eccessivi, e producono confusione nella comprensione del film. Determinate scene mostrate all’inizio acquisiscono senso solo alla fine, lasciando allo spettatore la curiosità di rivedere il film per rileggere la storia con un punto di vista diverso. Un curioso gioco di incastri ambizioso e raffinato, difficilmente adattabile al gusto di tutti, pur rimanendo vincente.

La storia è particolarmente violenta, cruda e spietata. Cattet e Forzani non si limitano ad inserire dettagli curiosi, come il fatto che gli agenti, in una delle scene, usino dei bisturi per combattere contro Serpentik. I registi lanciano questi spunti di riflessione, senza però indicarne la direzione, ma la stessa confusione può essere lo scopo della loro ricerca. L’intera scelta del rendere le scene così esplicite, splatter e a tratti body horror, rispecchia anche la brutalità dei rapporti di potere. Alla violenza del denaro corrisponde quella di Serpentik, l’arte è fatta di petrolio e non ci si può più rifugiare in una speranza di decenza umana.
Il film è un’esperienza, che lo spettatore vive con tutti i sensi, il disorientamento è garantito. Sperimenta con gli stessi tempi di un fumetto e il debito con questo mezzo espressivo è esplicito. Il film è fatto di quadri, di cattivi epici, e l’agente John è sia un supereroe sia un supercattivo animato dalla vendetta. Inoltre, nei flashback, anche l’ambientazione è particolarmente grafica e fumettistica, così da rendere onirico e fantastico il pericolo.
Non vi è alla base una morale, un messaggio chiaro che la storia vuole proporre. Il declino di un agente, o di un attore, mostra ciò che normalmente non viene rivelato: cosa succede dopo aver vissuto una storia avvincente. Gli occhi di Testi sono ancora vivi, ma non è più quello di una volta, sia nel film che nella vita. Scegliere lui come protagonista segna la morte di un genere, il superamento di tecniche narrative, che acquisiscono necessariamente un tono vintage. Di conseguenza, le sperimentazioni registiche e il costante alternarsi tra dimensione onirica e realtà coinvolgono lo spettatore, suscitando in lui emozioni paragonabili a quelle dei gialli classici, ma in una forma più adatta alla sensibilità contemporanea.
In sala.