Piece by Piece, la recensione: le infinite possibilità di un documentario

Wanna know what I’m waiting for? Some kind of sign, like a meteorite. Something to happen, some kind of magic. To make me feel real.

Quando ad un certo punto il giovane Pharrell Williams, mentre ascolta su uno stereo I Wish di Stevie Wonder, parla di sinestesia, «vedi con gli occhi della mente», chiarifica subito le sue intenzioni. Non sarebbe stato possibile – o comunque meno significativo – raccontare la storia del musicista senza tenere in considerazione ogni elemento mentale che, da lui, viene percepito come vivo: il perdersi tra i suoni che acquisiscono nuove forme e colori, palazzi volanti, città marine e viaggi spaziali coi Daft Punk. Per poi tornare all’inizio, da Pharrell e il documentarista Morgan Neville che parlano, seduti uno di fronte all’altro in uno studio, circondati da una troupe, da microfoni e camere. Neville fa domande, e il cantante risponde.

Ripartiamo da qui: non è un mistero che ogni documentario, una materia da cui ci si aspetta veridicità e spontaneità, sia in realtà costruito su una sceneggiatura, un testo per selezionare i frammenti più significativi di un racconto e conferirgli una struttura emozionale. Finché non arriva la rottura: «Sarebbe figo se raccontassimo la mia storia con i mattoncini Lego», dice entusiasta una minifigure lego con le fattezze di Pharrell Williams. «Seriamente? Lego?», risponde sorpreso Neville. «Apri la mente». Il concetto di reale viene arricchito esattamente come accadeva in Flee, e l’intervista-documentario non solo viene scritta, ma viene smontata Piece by Piece (trailer), per essere poi ricomposta da un processo memoriale libero dai confini del vero – e senza dover leggere il libretto delle istruzioni, come aveva anticipato The LEGO Movie, il primo film del “Legoverse” – (ri)costruendo, oltre al fattuale, quell’affasciante interiore invisibile.

Pharrell Williams è uno dei grandi artisti del nostro tempo, e vive nelle sonorità dei più celebri successi da fine anni novanta-primi anni duemila ad oggi (in molti casi assieme all’amico d’infanzia e musicista Chad Hugo, col quale formava il duo The Neptunes, evolutosi poi nei N*E*R*D, No-one Ever Really Dies, con l’arrivo di Shae Haley). Da Superthug, Hella Good, Drop It Like It’s Hot con Snoop Dogg a Alright, Happy o Get Lucky. L’ibridazione tra generi come segno caratteristico, come stile di vita, diventare l’inaspettato dentro una scena che sente il bisogno di rinnovarsi.

Scaviamo con Neville dentro la vita di Pharrell: «È terapeutico», dice il musicista con gli occhi bagnati dalla commozione. Il cineasta lo segue con camera a mano nella sua casa, mentre gioca con i figli, o nel suo vecchio quartiere popolare, dove qualcuno lo ringrazia per la sua musica. E dopo esplosioni di colori e suoni, e il bisogno di far diventare i sogni realtà, veniamo accompagnati in questi momenti privati e puri, di presa di consapevolezza, che umanizzano i volti delle minifigures dalle espressioni limitate, e ci ricordano che con quei mattoncini ci siamo divertiti, abbiamo sperimentato e costruito e immaginato. Cosa c’è di più vero? Il tempo del ricordo diventa motivo d’esistenza, di lotta in alcuni casi, di abbandono ai sentimenti in altri. «Cosa posso fare per mettermi a servizio della vita?» si (ci) chiede Pharrell. Intanto le possibilità sono infinite. Dobbiamo solo ricordarci come costruire senza limiti. Chissà se Pharrell Williams viene davvero da Nettuno.

Al cinema dal 5 dicembre.

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