
Archivio e immagini continuano ad essere la base di partenza dei film presentanti durante la terza giornata di concorso, qui alla 61esima Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Una base che trova le sue fondamenta in Desire, il cui riassunto si può captare da una riflessione della protagonista: «È strano il tempo […], prima che te ne accorga è già andato». Il film (ri)narrativizza il tempo vissuto da altri – e le immagini vissute da altri – lo (ri)monta liberandolo a una nuova esistenza, per offrigli tre nuovi possibili atti. Giuseppe Boccassini riesce a ricontestualizzare un genere di riferimento, immergendo sapientemente il pubblico del festival, senza tergiversare, in un robusto collage non cronologico, talvolta respingente, composto da vari materiali filmici melodrammatici (usciti tra il 1932 e il 1958). I film evolvono nel tempo, in parallelo al nostro sguardo, lo sguardo del presente, che tende – anche involontariamente – a problematizzare tutte le immagini esistenti. Così, in queste storie già vissute, si nota la presenza di alcune questioni che ci portiamo appresso, ormai da molto tempo, e il cineasta, lavorando sul genere e sull’archetipo, riesce a raccontare (anche letteralmente) la distruzione (dei film e di un certo tipo di atteggiamento) e l’impossibilità della distruzione stessa. Le problematiche riscontrate esistono, sono esistite, non possono essere cancellate. Possono invece essere (ri)montate, appunto, perché quello che esiste serve anche a questo: a ripensarci, a rimodularci.

Successivamente è stato presentato Lo que creemos es lo que cuenta para nuestra vida della regista franco-spagnola Assia Piqueras, in cui disseziona il suo passato familiare e le colpe che ha ereditato da esso. Con un’ottica post coloniale e profondamente antropologica, punta i riflettori sulla responsabilità storica e l’eredità del colonialismo, nella disarmante presa di coscienza della profonda scia di sangue causata dall’Europa coloniale nel proclamarsi il continente del progresso e della prosperità. La tecnica dello split screen permette di rendere la confusione che si affronta nel tentare di decodificare il passato, contrapponendo immagini d’archivio, parole scritte, testimonianze e memorie. Intende interrogare il passato, cercare la responsabilità celata di un’appropriazione coloniale mai del tutto terminata.
La figura che tenta di scoprire è quella di Manuel Piqueras Cotolì, orfano spagnolo, emigrato in Perù nel 1919 per insegnare scultura all’accademia di belle arti di Lima e da cui parte una torbida storia familiare. Il Perù del presente porta ancora i segni della colonizzazione spagnola, un’onda di violenza che ha causato la distruzione dell’identità culturale e la solidificazione di un sistema sanguinario.
Lo que creemos es lo que cuenta para nuestra vida si pone come un dialogo con un passato, in cui i tempi, i luoghi e le testimonianze si affiancano in un trittico che cerca di ricostruire una storia scomoda, e fare i conti con la colpa e la vergogna donati da secoli di storia. Il cortometraggio prende le sembianze di studio antropologico sotto forma di immagini, criptico, frammentato e disorientante, e mette in relazione il passato e i suoi effetti sul presente, riportando le scioccanti narrazioni della memoria sia collettiva che individuale. La regista ritrae la propria famiglia di spalle, paralizzata dalla vergogna, incapace di fronteggiare la violenza dei propri antenati. La verità assoluta non può conoscerla nessuno, ma proprio come in Perù ci si affida ancora ad una fede importata dagli spagnoli, l’importante è avere qualcosa in cui credere, in cui sperare.

L’ultimo titolo della terza giornata di concorso è stato l’attesissimo 12 Asterisci, del regista tedesco Telemach Wiesinger, un atipico road movie di impressioni. Da una panoramica delle luci dell’Europa vite dall’alto inizia un susseguirsi di inquadrature prima statiche che iniziano poi a fluire lentamente, principio di un viaggio di esplorazione. Suggestioni visive in bianco e nero si sovrappongono a suggestioni sonore componendo una poesia di immagini e suoni talvolta in armonia tra loro, talvolta in contrasto.
L’esplorazione parte dalla Germania, in particolare dalla divisione tra Est e Ovest, di cui ancora permane un’ombra architettonica. Ricorrono simboli di divisione e confine, ringhiere, cancelli e sbarre, ma anche i mezzi di trasporto più disparati, treni, aerei e sottomarini. In alcuni momenti i suoni descrivono le immagini, il cinguettio degli uccelli, la pioggia e i passi che affondano nella neve, in altri fanno digressioni astratte come il ritmo costante di una marcia.
Il viaggio è inframmezzato dall’immagine ricorrente della stella. Le stelle dell’Europa che il regista esplora in lungo e in largo. Stelle bruciate, fuse, ferite e ricucite.Come in diversi altri titoli in concorso alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, ricorre la volontà di ripercorrere i luoghi nel tentativo di interrogare il passato. 12 Asterisci dà la sensazione di un’ipnosi, guidata nello sguardo e scandita dai rumori, prolissa e ripetitiva, ma caratterizzata da una certa poeticità. Un viaggio di esplorazione descritto dal regista stesso come un Haiku di immagini, un reportage oggettivo e disilluso ma allo stesso tempo amorevole.
Di Edoardo Marchetti e Miranda Rinaldi