
Due film silenziosi e contemplativi chiudono la quinta e ultima giornata di concorso, qui alla 61esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Sembra lontano, in questi due casi, un tempo già vissuto – dai cineasti o da figure che ruotano attorno ad essi – un tempo ectoplasmatico che Park Kyujae tenta di materializzare col suo Buseok (trailer): una composizione sperimentale e silente di immagini pittoriche suggestive girate in pellicola. Dalla prima inquadratura si intuisce come lo sguardo che guiderà l’intero film sia quello di una persona non identificata (o forse lo sguardo della videocamera davanti al suo occhio), una figura che ripercorre le tracce della storia della propria famiglia.
Il cineasta sudcoreano sceglie di porre tutta l’attenzione sulla forza delle immagini, eliminando ogni suono musicale o ambientale, ogni distrazione, nella speranza che tutti questi filmati incastrati tra loro possano narrare ed emozionare da soli, senza aiuti. La bellezza viene interrotta solo da alcuni abbagli in negativo, dei lampi di luce fastidiosi e reboanti nel loro silenzio. Uno shock che (ri)setta uno sguardo (quello dello spettatore) dal flusso che lo aveva rassicurato fino a quel momento, un flash che riporta e che non limita chi guarda ad una visione solamente oculare, ma che sceglie consapevolmente di essere anche cerebrale.

Il secondo film, Sob a Chama da Candeia (The Flame of a Candle) (trailer), racconta di due donne che hanno condiviso l’appartamento per sessant’anni. In questo appartamento una delle due, Alzira, è nata, ha vissuto ed è morta; è stata figlia, madre e nonna. L’altra, Beatriz, è stata (e continua ad essere) la domestica, ora costretta dall’amica, dopo una vita, ad andarsene. È un racconto minimalista e apparentemente tranquillo, quello proposto da André Gil Mata, chiuso in confini prestabiliti, talvolta opprimenti, e in rapporti estenuanti, ma in cui possiamo trovare il perfetto riassunto del percorso costruito dal festival, un percorso esteso nel tempo, composto da vite che tentano di narrativizzare la (semplice, quotidiana) linearità continuativa della storia collettiva, e delle storie individuali che si sviluppano attorno ad essa.
L’appartamento diventa un luogo identificativo, che plasma chi lo abita mentre si lascia plasmare, uno scambio che alimenta la fiamma della candela che dà il titolo al film. Questa candela, però, si spegnerà, ma il calore che ha emesso non potrà essere dimenticato. Attraverso un lungometraggio – il primo del concorso con una durata di quasi due ore -fin troppo concentrato sull’estetizzazione e sull’esibizione di una realtà quotidiana forzatamente ricomposta, il cineasta portoghese riesce comunque (ogni tanto) a catturare quei pochi necessari barlumi di calore che alimentano quella candela.