#PesaroFF61: Focus su Simone Massi

Invelle dasscinemag
Invelle (2023)

In occasione della fine della 61esima Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, pubblichiamo quest’ultimo articolo dedicato al regista dell’ammaliante sigla d’apertura di questa edizione, Simone Massi, che abbiamo avuto il piacere di incontrare (potete recuperare l’intervista completa qui, sul canale YouTube di Dasscinemag). Ora, vorremmo concentrarci – per l’originalità con cui è trattato – solo su uno dei numerosi elementi che abitano l’intera opera del cineasta marchigiano, la continuità, rappresentata materialmente nei suoi film da una carrellata continua – infinita – che lega ogni (s)oggetto, permettendogli di diventare o di essere la diretta conseguenza di qualcos’altro. Quindi, prendiamo come riferimento la sigla: la macchina da presa si avvicina a un ragazzo impegnato a leggere alcuni fogli poggiati su un tavolo, illuminato solo da una luce appesa al soffitto. L’inquadratura continua ad avvicinarsi, finché non raggiunge la (entra nella) testa-mente del ragazzo. Al suo interno ci sono delle parole (quelle dei fogli sul tavolo?). La camera ancora non si ferma, anzi si addentra tra le frasi, spezzettandole in tante lettere, finché una di queste non si rivela un aeroplano abbozzato, che a sua volta si trasforma in un cielo notturno; infine, in mezzo a questo cielo buio vola elegantemente, per poi atterrare, una bellissima civetta (vi abbiamo descritto solo i primi sedici secondi della sigla, che dura più di un minuto; potete recuperarla qui).

«Il cinema d’animazione è il terreno perfetto per la sperimentazione, […] una persona può trasformarsi tranquillamente in un albero, in una casa, in un campo arato […], perché, a differenza dell’immagine fotografica, chiunque si sieda in una sala per vedere un film d’animazione sa che non è vero. È un disegno in movimento, è una sintesi di quello che vediamo con gli occhi. […] È normale che tutto possa accadere nel cinema d’animazione», ci spiega Massi. «Il linguaggio degli stacchi è una consuetudine, è un obbligo perché ci permette di essere in più posti nel giro di pochi secondi, di vedere il punto di vista di più protagonisti […]». Poi ci confessa di non essere più in grado di ragionare attraverso la consuetudine, attraverso questi stacchi. Ed è qui che subentra il piano sequenza infinito, la carrellata che fa proseguire i punti di vista, i passaggi temporali, i personaggi-paesaggi e le loro trasformazioni – certe volte, guardando i film di Massi, torna alla mente la celebre frase di Agnès Varda: «Se aprissimo le persone troveremmo dei paesaggi. Se aprissero me, troverebbero spiagge».

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Dell’ammazzare il maiale (2011)

Durante il festival, sono stati proiettati sedici dei suoi cortometraggi, e il suo primo lungometraggio, Invelle (trailer). Partiamo dai corti – presentati dal più recente, del 2022, viaggiando a ritroso fino al 1995. Appropriata la scelta di mostrarli seguendo questo specifico ordine: ha reso la proiezione un viaggio che comincia da quello che, per adesso, è l’arrivo, in direzione di quella che è stata la partenza. Un percorso coerente, un flusso che non si interrompe mai, così minuziosamente legato da far sparire quasi del tutto gli stacchi tra un cortometraggio e l’altro. La carrellata infinita, che si addentra curiosa (da sempre) nell’essenza degli oggetti e dei soggetti, accompagnata dalle sensazioni provate dagli individui che incontriamo, nonché dai suoni spesso riconoscibili tra una storia e l’altra (del resto, quello proposto da Massi è anche un cinema sensoriale), si estende al di là del singolo progetto, creando una catena consequenziale di tempi e luoghi. Questi cortometraggi, sia presi singolarmente, sia – ancora di più – inseriti in un percorso, sono road movie nell’interiorità delle cose e delle persone. È rilevante che sia stata presentata anche la sigla che il cineasta ha realizzato per la 69ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Una sigla (come quella di quest’anno) che non si limita a essere tale, ma che diventa opera indipendente dal contesto per cui è stata realizzata, un’altra tappa necessaria di questo bellissimo viaggio alla ricerca di una partenza.

Dopo aver conosciuto il regista attraverso i suoi brevi film, dopo essere arrivati all’inizio del suo percorso, (ri)torniamo all’oggi, a Invelle, che racconta le storie di Zelinda, Assunta e Icaro, due bambine e un bambino che abitano in tempi diversi, lungometraggio che sembra essere la summa del suo lavoro (e della continuità del suo lavoro). Stavolta, ad accompagnare le carrellate infinite, c’è un lunghissimo filo rosso che collega le epoche, come se passato e presente, e di conseguenza il futuro, non fossero separati, ma vivessero allineati. Non esiste un prima o un dopo, nel cinema di Simone Massi, esiste solo un infinito “ora”. Qui, più chiaramente, la continuità non è un’esclusiva del tempo (e della tecnica usata), ma si riferisce anche allo spazio. Invelle in dialetto marchigiano significa in nessun posto, in nessun luogo. Non solo perché gli ambienti immaginati dal regista nel suo film sono tendenzialmente esclusi dalla macrostoria, ma anche perché il non-luogo può farsi spazio specifico, personale e universale insieme, dove racconti individuali si intrecciano e diventano memoria collettiva. Quei “nessun luoghi” e quei “nessun tempi” abitati dai personaggi di tutta l’opera del cineasta, possono aggregarsi al nostro personale “nessun luogo” e “nessun tempo”, producendo un rinnovato “ovunque”. Così, attraverso questa continuità, e la conseguente collettività ritrovata, il cinema di Simone Massi si rivela un necessario e lucido ragionamento – materico e vivo – sulla memoria e sulla sua trasmissione. Una memoria che prima riesce a leggere la realtà e poi, in un secondo momento, la attraversa – all’infinito – per trasformarla in altro.

Quando abbiamo chiesto a Simone Massi cosa intendesse per Nuovo Cinema, ci ha risposto: « Il Nuovo Cinema è un tipo di opera che non ha paura di osare, e che soprattutto non è incline al compromesso ». Questo suo procedere in maniera continua, senza stacchi, risulta spiazzante in un contesto contemporaneo in cui le immagini vengono costantemente frammentate o decontestualizzate; è un gesto apparentemente semplice, ma tanto complesso da portare avanti, che non può che apparire come l’emblema, o la base, di quello che vorremmo fosse il Nuovo Cinema.

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