“Adriano cercava il cinema, andava al di là del film e lo cercava in ogni espressione audiovisiva”. Nell’omaggio al critico e acuto direttore della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro per 9 anni negli anni ‘90, la figura di Adriano Aprà si vela davvero di quello “ieratismo sfingesco” che il critico Federico Rossin gli attribuisce per l’occasione. All’incontro, inaugurato dalla proiezione del documentario Rossellini visto da Rossellini (ideato da Aprà nel 1993), intervengono studiosi e fautori del cinema per cui Aprà è stato punto di riferimento e apripista, che si ritrovano nel timore reverenziale che il gigantismo del critico romano incuteva, nonostante poi si sciogliesse quasi sempre “in un sorriso dolcissimo”.
Rigoroso, sempre sul pezzo, attento ai dettagli, direttore dalle scelte radicali, mai seguace e sempre dettatore di mode, di “strade critiche”, Adriano Aprà mette tutti d’accordo sulla sua non riproducibilità. Rossin tratteggia i contorni di un visionario, capace di dare definizioni spietate, icastiche: per lui era un “tacitiano, non oracolare, preciso”. E, soprattutto, parlava di cinema col cinema, col rigore dell’analisi dentro il cinema.
Nel suo intervento, Giacomo Ravesi ci tiene a ricordare l’importanza di prenderne per mano l’eredità, di mantenere vivi i progetti a cui Aprà stava lavorando: cita un testo su Carl Theodor Dreyer, insiste sullo storico FUORINORMA, fa riferimento alla spinta archivistica delineandone la figura di studioso impegnato, di divulgatore e collezionista feroce, sempre disponibile a far recapitare materiale bibliografico, sempre preso dalla smania di raccogliere per i posteri, per gli studi del domani, in una concezione di archivio mai esclusiva ed elitaria, ma come “strumento di relazione”, di deposito culturale da riservare al futuro.
“Odiava la parola maestro”, eppure l’Adriano Aprà che ne viene fuori è proprio quella di soggetto capace di essere parte attiva nella formazione delle generazioni di scrittori e studiosi del cinema a lui coeve e successive, di “dare senza mai chiedere qualcosa in cambio”, di dedicarsi anima e corpo alla causa.
A calmare (o forse prosciugare) l’onda nostalgica del ricordo del critico è l’incontro con Franco Maresco, cineasta palermitano noto per la sua collaborazione con il regista Daniele Ciprì come duo Ciprì e Maresco e per la sua narrazione cinica e spietata della realtà siciliana in opere come il programma televisivo Cinico Tv o il film La mafia non è più quella di una volta.
Maresco è caustico e per tutta la tavola rotonda a lui dedicata si scontra con un’idea di cinema per lui completamente inadeguata. «Il cinema è morto» dice il regista, e probabilmente con esso anche le sue speranze in un’ipotetica rinascita. La riflessione critica nasce da un tema, quello della rappresentazione della mafia nel cinema, e poi si allarga fino ad arrivare alla concezione del comico e alla purezza dello sguardo dell’immagine cinematografica. Da sempre l’obiettivo di Maresco, spesso investito a suo dire ingiustamente della fama di cineasta satirico, è quello di prendere in giro una certa rappresentazione “cartolinesca” e romanzata della mafia e più in generale della Sicilia (si parla anche di “camillerismo”), allontanandosi dunque sia da una sua mitizzazione sia dalla visione umoristica dei meridionali come “cazzeggiatori” (e qui il riferimento è a Renzo Arbore).
Con il successo mediatico delle reti berlusconiane, tuttavia, il risultato è inaspettato e mortificante: «non c’è più né mafia né antimafia, siamo nella società dello spettacolo», da qui la perdita di senso dell’intera narrazione. E le considerazioni si fanno ancora più amare parlando del ruolo del comico, che secondo Maresco perde di senso non appena diventa il mito del padrone e quindi fa ridere il politico, tendenza molto diffusa negli ultimi tempi (si pensi a Maurizio Crozza). Il comico per il regista «ha a che fare con la morte, è disperazione dinamitarda e anarchica. Il comico è solo contro tutti», come i protagonisti delle storie Di Franz Kafka e Fedor Dostoevskij.
Infine a entrare in crisi nella panoramica di Maresco è lo sguardo, bombardato quotidianamente da miliardi di immagini e quindi privato di quello stupore che è naturale e spontaneo in tutti noi. Il quadro che ne risulta è piuttosto demoralizzante e pessimistico ma in qualche modo il rifiuto totale dell’assetto attuale del cinema italiano tradisce uno stimolo creativo e innovativo ancora vivo nel regista che fa ricredere anche i più scettici.
Di Paolo Falletta e Claudia Teti.