#PesaroFF61: gli Envíos di Jeannette Muñoz

Envíos dasscinemag

Siamo nella piccola e intima sala Pasolini, dentro al Teatro Sperimentale di Pesaro, il luogo-punto di riferimento per il festival del Nuovo Cinema. Mentre i ritardatari prendono posto e mentre il proiezionista carica la bobina, i curatori presentano al pubblico la cineasta cilena Jeannette Muñoz e la sua lunga – nel tempo, breve nei fatti – opera, Envíos. Ancora una volta, genuinamente, riflettiamo sulla più immediata delle domande: siamo al festival del Nuovo Cinema, eppure c’è questa figura, il proiezionista (figura magica nel passato, per alcuni addirittura una leggenda, come ci racconta Zhang Yimou nel suo dolce e brillante One Second), che sta caricando la pellicola nel piccolo proiettore, chiedendo alle persone lì nei pressi di spostare leggermente la testa per non intralciare il cammino della luce. Com’è possibile che il tanto ricercato Nuovo Cinema abbia a che fare con le bobine, con la pellicola, con quella tangibilità delle immagini – oggi probabilmente infattibile, quindi apparentemente anacronistica – che si è riversata dalla produzione cinematografica a quella individuale? Come può essere Nuovo quel materiale che è sparito dalle case della gente e dal mercato popolare (oltreché, quasi del tutto, da quello cinematografico), e che risulta attrattivo esclusivamente per una nicchia di pubblico nostalgico o formalista?

Ma torniamo a (e partiamo con) Envíos. L’opera – cinematografica, videoartistica, forse addirittura inconsapevolmente letteraria – consiste in una serie di corti in 16mm che la cineasta ha inviato nel tempo, a partire dal 2005 fino ad oggi, ad amici e conoscenti, e la cui genesi, come ha raccontato Muñoz nella prima parte dell’intervista che ci ha rilasciato (e che potete recuperare qui): « È in realtà la mia emigrazione dall’America Latina, dal Cile, all’Europa (prima in Francia, poi in Svizzera), ed è nata come una forma di connessione sia con ciò che ho lasciato che con il mio nuovo luogo ». Si percepisce, dalle parole della cineasta, la voglia di (ri)tornare a un senso di materialità e affezione al corpo-immagine, affezione che può tradursi in un attaccamento fisico sia ai luoghi vissuti che alle entità che li abitano. Torna alla mente anche una riflessione scritta da Derrida in Ciò che resta del fuoco: « La forza della lettera sta nel fatto di poter mancare il suo arrivo », idea che ricorda l’essenza dell’immagine in pellicola, un’immagine non scontata, con un suo tempo vitale, che riesce ancora a creare uno scarto con quelle brusche e volatili che abitano il presente – qui i filmati sono addirittura privati di ogni suono; silenzi forzati che potenziano la forza testimoniale e che intensificano l’attenzione ricercata. L’immagine materica – inviata – pretende un approccio diverso dalle abitudini visive consolidate, e può, per la sua natura, non inserirsi nel flusso continuativo di quelle presenti, o in alternativa può tentare di comporre con esse una coerenza logica – ormai l’ingorda fruizione contemporanea ci ha abituato ad allineare balletti, notizie socio-politiche rilevanti e brainrot (e chissà quanto altro), e l’analisi di un’immagine singola (rilevante) o di una sequenza studiata può generare (nuovo) senso.

Envíos dasscinemag

« Per me non ha un senso nostalgico [la mia opera], ma è un modo per valorizzare le cose quotidiane, intime, private. Dunque [ho tentato di] dar valore a ciò che è piccolo, a degli oggetti, a degli incontri, a una conversazione; era più questa l’intenzione », rivela Muñoz nella seconda parte dell’intervista. Non è, quindi, tanto la consumazione del ricordo a muovere l’opera della cineasta, quanto la totale dedizione agli attimi “scontati” esclusi dall’interesse cinematografico. Continua nella terza parte: « Non faccio documentari, non sto descrivendo nulla, sto semplicemente mostrando un’esperienza », ed in quest’esperienza quotidiana rivisitata (presente nel momento in cui viene girata, passata appena nasce l’envío successivo) che risiede forse il Nuovo Cinema. Sperimentare con quel materiale che ha inventato le immagini, permettergli di riappropriarsi di un senso e di un’importanza che oggi sembra essere data per scontata. Rimaniamo ammirati anche davanti alle intenzioni (distributive) di Muñoz, da come sia emotiva e amorevole la spinta che l’ha portata a riprendere determinate cose e persone: un atto privato condiviso (che rimane, paradossalmente, privatamente-collettivo nel momento della sua proiezione, forse per un accordo sottinteso con lo spettatore, come a dire: “questi video sono di altri, non miei. Io sono solo un osservatore a cui è stato permesso l’accesso temporaneo”), un atto che va ad opporsi a quello espositivo (dei social) e commerciale attuale – o commercializzato e attento alla viralità.

La proiezione finisce, le luci si accendono e il proiezionista riavvolge la pellicola mentre Jeannette Muñoz cammina verso lo schermo per un breve commento, affiancata dai curatori e accompagnata dagli applausi della sala. Appena conclude, alcuni di noi escono per raggiungere altre proiezioni, e altri si preparano per proporre alla cineasta l’intervista per i nostri canali social. Oggi, a qualche giorno di distanza, abbiamo deciso di legare il testo che state leggendo a quell’intervista (spezzettata) su @dass.cinemag. Dopo averla girata, era apparsa davanti ai nostri occhi, violenta, un’altra questione soffocante. La corporeità delle immagini di Muñoz (e la loro forza distributiva) appare in contrasto con la copertura video che abbiamo pensato di organizzare per la 61esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Temiamo che quest’intervista, a cui teniamo molto – perché, in questo caso, l’opera non può vivere senza la sua autrice; l’una senza l’altra verrebbe depotenziata -, possa rimanere incastrata nelle logiche fameliche dei social, persa tra tante altre immagini usa e getta, confusa con altro. Nella speranza che possa costruirsi un dialogo tra la forma scritta e la video-intervista, e che questo dialogo possa essere meno labirintico e con una scadenza meno breve, ci ricordiamo, ancora una volta, come l’opera della cineasta cilena sia fortemente rilevante nel presente, soprattuto in un contesto in cui si ricerca il Nuovo Cinema. Oggi, la corporeità di queste immagini – di questi video non scontati – non può che essere controcorrente, rivoluzionaria. E noi, testimoni temporanei, siamo contenti di averla scoperta, e grati a Jeannette Muñoz di averla condivisa.

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