NUOVE PARANOIE AMERICANE: UNSANE DI STEVEN SODERBERGH A BERLINO

Girare un film con un cellulare è ormai una scelta stilistica diffusa. In Italia il primo lungometraggio è stato il documentario Nuovi comizi d’amore di Mencarini e Seghezzi del 2006, mentre il sudecoreano Park Chan Wook, che presentò nel 2011 al Far East Film Festival il corto Night Fishing, è forse il primo regista di fama internazionale ad avere girato con iPhone. Nel 2018, con tecnologie molto più avanzate, Steven Soderbergh presenta a Berlino il suo Unsane.

Rispetto alla media dei suoi predecessori, il regista americano rendere questa scelta stilistica molto più coerente alla trama e alle necessità linguistiche del film. Unsane è un film sulla paranoia, motivata o indotta, una paura dell’altro generata da esperienze reali o da proiezioni psicologiche. In questi termini, l’idea di usare uno strumento che agevola i contatti personali e al tempo stesso aumenta il distacco fisico sembra molto attinente. Sawyer (Claire Foy) è una ragazza tormentata da un passato di molestie e stalking, convive in segreto con le sue paure e le sue esperienze e deve affrontare ogni giorno le piccole molestie sottili dei suoi colleghi uomini. Soderbergh usa il cellulare come se fosse uno stalker, pedinando la ragazza, creando nello spettatore una sensazione di disagio. Poi la trama prende una svolta imprevedibile, con il ricovero della ragazza in una clinica psichiatrica dove sarà sottoposta a torture psicologiche e vedrà la sua paranoia alzarsi a livelli impensabili. Lo spettatore qui è costretto ad assumere una posizione, schierandosi con la vittima senza potersi distanziare dall’inquietudine dei fatti.
Soderbergh racconta una storia di paranoia che va più a fondo del classico film ad alta tensione, affonda le mani nelle paure più moderne degli americani, la sanità, la sicurezza, le assicurazioni, il lavoro e perfino l’abbandono del nido materno. Non si può evitare di citare la presenza cameo di Matt Damon in un ruolo che metaforicamente sembra voler interpretare la società della sicurezza ai tempi di Trump. A dominare su tutto c’è il racconto della paura dell’altro, resa con meravigliosa precisione dalle inquadrature dello smartphone, con personaggi sempre in piani stretti come se da un momento all’altro potessero infrangere la distanza tra noi e loro. In effetti, nella mente dello spettatore, che resta avvolto magicamente nelle paure della protagonista, Soderbergh quella distanza ha saputo violarla.
di Daniele Clementi

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