New Queer Cinema: amore e identità dagli anni ’90 ad oggi

paris is burning dasscinemag approfondimento

Tra le stradine illuminate dalle insegne al neon risuona l’attesa per la proclamazione di un vincitore. L’atmosfera è competitiva, i premi attendono custoditi in una valigetta. Non siamo però alla Notte degli Oscar, ma ad una competizione di voguing dance e brillare non è il Dolby Theatre di Los Angeles ma un piccolo locale di Harlem a New York. Ad aprire gli anni ‘90 arriva il racconto della scena drag-ball direttamente dalle voci dei protagonisti in un documentario dal titolo di Paris is burning. La regista Jennie Livingston non è la prima e non sarà l’ultima a scegliere di raccontare il mondo queer, ma è sicuramente la prima a farlo così. Autenticità, casa, denigrazione, maternità, sono solo alcuni dei concetti attorno al quale si aggregano le testimonianze delle personalità che parlano, raccolte dalla regista nel corso di sei anni. Raccontano i loro sogni, le proprie difficoltà, alternano piena consapevolezza a momenti di tenera innocenza. Sono comunità emarginate di transgender, drag queen, omosessuali afroamericani e latinos che hanno però costruito un microcosmo di protezione reciproca nelle Case. Il ritratto che emerge è nitido e il messaggio è chiaro: la comunità queer esiste, ed è stanca di non sentirsi rappresentata nei media moderni.

Gli anni ‘90 si colorano così dell’arrivo prorompente e definitivo di coloro che fino a quel momento faticavano a trovare una propria dimensione in un cinema per lo più eteronormativo, in cui lo spazio a loro riservato sembrava sempre troppo stretto e limitante. Il New Queer Cinema è un movimento la cui definizione venne coniata dalla critica B. Rudy Rich nel 1992, in seguito al suo osservare come in quel periodo storico l’omosessualità fosse una tematica sempre più presente in diverse fasce del cinema indipendente. Tra le figure che costellano la corrente troviamo alcuni dei nomi più interessanti dello scenario internazionale ancora oggi. C’è chi sceglie di interessarsi alla tematica queer solo per un film, ma nella maggior parte dei casi la necessità di dare eco alle voci di quei protagonisti è talmente costante da coprire intere filmografie.

the living end dasscinemag

È sicuramente il caso di Gregg Araki, regista statunitense che è già in preparazione del suo nuovo film, I want your sex. Da Mysterious Skin a Doom Generation, mette in scena un cinema cosparso da un’indagine sul mondo queer entrando nelle radici di una dicotomia tra sessualità e dolori più profondi, spesso dai rimandi esistenziali. È evidente in film come The Living End, il suo primo grande successo di pubblico. Già a partire dalla sinossi stessa è chiaro quanto il film si possa caricare di implicazioni filosofiche: due uomini gay sieropositivi si incontrano per caso e partono per un viaggio in auto che è anche fuga, dalle loro vite e dalla responsabilità un omicidio. Il road-movie è allora anche una metafora pregnante di significati, in un film che si interroga continuamente sul valore della libertà di vivere come si vuole ma anche sul restare a contatto con la morte, sentendosi come due bombe ad orologeria. Girato in 16 millimetri, The Living End è un racconto brillante che all’inizio illude lo spettatore con un’atmosfera apparentemente leggera, ma tendendo sempre più consapevolmente verso un finale che al contrario, come spesso accade nella filmografia del regista, sa turbare profondamente.

 È il caso anche di Totally Fucked Up del 1993, film seguente di Gregg Araki, primo capitolo della trilogia Teenage Apocalypse (i successivi saranno Doom generation del 1995 e Ecstasy Generation del 1997). Stavolta il regista statunitense sceglie una cifra più esplicitamente documentaristica, ma lo stile è sempre riconoscibile e veramente unico nel suo genere. Anche qui sono protagonisti sei personaggi queer, di cui si seguono le vicende in modo più o meno approfondito. Il loro mondo è fatto di ricerca di continue distrazioni in una realtà che sempre più spesso li mette però di fronte a situazioni complesse e dal peso emotivo e psicologico forte. Le riprese amatoriali permettono così loro di aprirsi sulle tematiche più disparate, facendo emergere in modo confusionario ma sincero la loro personale visione della vita. L’alienazione e un senso di oppressione vengono conditi da colori sgargianti ed un’estetica pop, permettendo allo spettatore di cogliere costantemente, sotto l’aspetto brillante, qualcosa di più profondo e sotteso.

velvet goldmine approfondimento dasscinemag

Se i contenuti forti dei film di Gregg Araki colpiscono, mettendo in evidenza problematiche reali e crude, il regista statunitense Todd Haynes entra nel profondo con malinconie più latenti. Partendo dalla sua opera prima Poison, il regista statunitense fa del mondo queer una delle sue principali fonti d’ispirazione. L’approccio stilistico è diverso rispetto a quello di Araki, caricandosi in film come Velvet Goldmine di atmosfere più oniriche e surreali. Il film del 1998 narra infatti la storia del cantante glam rock Brian Slade, più o meno velatamente ispirato alla figura di David Bowie, attraverso gli occhi del giornalista Arthur, interpretato da un eccellente Christian Bale. Egli, in passato fan dell’artista, indaga sulla misteriosa scomparsa di Brian Slade (Jhonatan Rhys Meyers) e sull’ambiguo rapporto con il musicista Curt Wild (Ewan Mc Gregor). Velvet Goldmine è un film eccentrico che trascina lo spettatore nel vortice dello scenario sociale degli anni ottanta, mostrando il mondo queer da un punto di vista privilegiato ma realistico. E Arthur, che per gran parte del film resta in disparte rispetto all’incredibile storia della pop star che lo sovrasta, ne è l’emblema, in un viaggio nel passato che lo riporta alla sua personale dimensione di crescita.

A dimostrazione della permanenza dell’interesse del regista alla tematica queer, nel 2015 viene presentato al Festival di Cannes Carol. Salto indietro negli anni ‘50, poco prima di Natale, la diciannovenne da una vita monotona Therese (Rooney Mara) serve al reparto di giocattoli dove lavora una cliente molto affascinante, Carol Aird (Cate Blanchett). È l’inizio di uno stravolgimento emotivo e fisico per entrambe, in un contesto oppressivo in cui l’amore può essere solo appena sfiorato prima di tornare nella propria gabbia. La dimensione esclusivamente femminile nell’America bigotta della Guerra Fredda diventa per le due protagoniste un disperato ma raccolto bisogno di trovare la propria libertà personale e avvicina sempre più il regista ad una profondità relazionale che è ottima coronazione della queerness a cui vuole fare onore.

A premiare l’impegno degli anni ‘90, arriva nel 2005 forse uno dei film queer più famosi e visti di tutti i tempi, il pluripremiato I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee. È un film dal peso storico e sociale estremamente rilevante, in quanto fu in grado, e lo è ancora oggi, di toccare le corde più profonde e al contempo di scalfire il mito intoccabile del cowboy. Quando il racconto di Annie Prolux, da cui il film è ispirato, venne pubblicato sulle pagine del New Yorker, fu ben presto evidente la necessità di trarne una trasposizione cinematografica. Ad accogliere il progetto arrivò per primo Gus Van Sant, altra colonna portante del New Queer Cinema con film come My Own Private Idaho del 1991 e Milk del 2008. Il suo attore favorito Matt Damon rifiuta però l’offerta del ruolo da protagonista, vanificando così il progetto nascente. Dopo un restio Almodovar, il soggetto arriva allora tra le mani di Ang Lee, che già nel 1993 si era occupato di omosessualità in Il banchetto di nozze, candidato agli Oscar come miglior film straniero.

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 La sensibilità del regista verso il racconto di rapporti sentimentali costretti in una libertà ritagliata si sposa alla perfezione con la storia di Brokeback Mountain. Ad interpretare i due uomini protagonisti di una delle storie d’amore più drammatiche e intense della storia del cinema, arrivano le interpretazioni magistrali di Jake Gyllenhaal e Heath Ledger. Dai loro volti, dai loro corpi e dalle voci spezzate traspare tutta la sofferenza di un sentimento compresso in piccoli spaccati di vita, che progressivamente non bastano mai e sempre più richiedono uno spazio intimo che non si possono permettere. Lo stile è asciutto, la narrazione procede per salti temporali in cui nulla però sembra essere cambiato: né l’amore tra Ennis e Jack, né le immagini terrificanti che riempiono la mente del primo quando sognano un futuro insieme, saturo dell’omofobia e dell’odio con cui è a contatto fin da bambino.

I segreti di Brokeback Mountain è un film che resta attuale, e per questo ancora universalmente apprezzato, anche proprio per quanto sono realistici e condivisibili i sentimenti dei due protagonisti ancora oggi. Se è vero infatti che sempre più si diffonde un’apertura e una conoscenza generale della comunità LGBTQIA+, è anche vero che persistono in tutti i contesti diffusi atteggiamenti di intolleranza e vera e propria criminalizzazione del mondo queer. Le paure e i timori dei giovani della comunità sono ancora piene delle stesse di qualche decennio fa, ed è anche per questo che la rappresentazione attuata dal New Queer Cinema è fondamentale come ruolo di testimone e portavoce costante. La possibilità di vedere le proprie preoccupazioni, ma anche i propri sogni e aspirazioni sul grande schermo è un diritto che non può più essere negato e che anzi dovrebbe essere posto al centro della cinematografia futura il più possibile.

Basta osservare i dati raccolti dal GLAAD, organizzazione statunitense per la difesa dei diritti della comunità LGBTQIA+ per rendersi conto del numero di voci ancora inascoltate. La ricerca si basa sui 10 principali distributori cinematografici americani, come A24, Netflix e Warner Bros e mostra come I film inclusivi LGBTQIA+ sono scesi al 23,6%, in calo rispetto al 27,3% del 2023 e al record del 28,5% del 2022. Solo due film, pari a meno dell’1%, presentavano personaggi transgender, tra l’altro con rappresentazione considerata dannosa da gran parte della comunità. La maggior parte dei personaggi queer continuano ad essere relegati alla funzione di side-characters, se non peggio, e ad avere rappresentazioni deformate da occhi registici poco attenti alle necessità della comunità. Sono dati che preoccupano e aprono riflessioni, dimostrando ancora oggi l’ostilità ad un’apertura al di là dei canoni tradizionali. Il risultato è un’oppressione di creatività e diversificazione che arricchirebbe invece notevolmente sia lo scenario cinematografico che gli orizzonti personali di ogni spettatore.

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