Monos, la recensione: il brutale lavoro atmosferico di Alejandro Landes

Monos

Prendiamo Il signore delle mosche e Cuore di Tenebra, la fisicità del cinema della Denis e le atmosfere rarefatte e consunte di Tarkovskij, fondiamole, e otterremo il nuovo lavoro di Alejando Landes: Monos – Un gioco da ragazzi. Opera complessa, per nulla complicata, dove è inevitabile non riferirsi a testi e opere ben note nell’immaginario collettivo per poterne scrivere. Collegamenti spontanei dovuti sì, ai continui rimandi visivi e stilistici ma, in particolare, al ricercato lavoro atmosferico in grado di intuire l’essenza delle opere citate, rimodellando e amalgamando quei mondi a favore di qualcosa di più personale.

In Monos, otto adolescenti isolati dal mondo tra vette di montagne altissime e fitte giungle dell’America Latina si allenano e combattono per un’importante missione: proteggere la dottoressa americana in ostaggio, da eventuali attacchi nemici.

Sin da subito Landes decide di focalizzarsi sulla suggestione dello spettatore per una totale immersione attraverso la spettacolarizzazione dei luoghi. Quindi ambienta tutta la prima parte del film sulle vette di una montagna nel parco nazionale Chingaza, dove un bunker di pietra monolitico torreggia sui giovani soldati. Un mondo rarefatto, lirico e atemporale perfetto per far emergere la condizione mentale e fisica dei ragazzi, che ci vengono introdotti uno ad uno. Ed è qui che il lato personale di Landes emerge, in quello che sembra un coming of age brutale a là Hunger Games, fatto di falò, droghe, suicidi, responsabilità e sesso. Un gioco continuo che sfida la morte e il dolore per smettere di sentirsi umani. Infatti, quelli che guardiamo sembrano più bestie feroci senza nessuno scopo se non quello di accoppiarsi, fare a botte, lottare per la superiorità e scuoiare animali. Bravissimo Landes nel dipingere lo stato ferino e brutale con umanità e pathos legati al periodo adolescenziale in cui la sensazione di invincibilità è superiore rispetto ad ogni altra cosa.

Il confine tra animale allo stato brado e bambino è offuscato da un costante gioco a voler essere adulti e maturi, imposto anche da una volontà superiore che li vuole uomini e donne pronti alla guerra. Ma si percepisce che, obbligati o no, il desiderio di essere adulti è uno dei principali obiettivi della missione e risiede nella volontà di ognuno dei ragazzi. Si passa poi, ad una effimera rappresentazione del mondo adulto: si affronta il matrimonio, si pagano le conseguenze dei propri errori e ci si irrigidisce, rendendosi conto che alla fine non si è ancora pronti a quel mondo che infatti li respingerà attraverso fallimenti su fallimenti.

Questo film parla dell’adolescenza perché è proprio allora che iniziamo a lottare per capire chi siamo e chi vogliamo diventare.”

Monos, il nome con cui viene chiamata la squadra di soldati, deriva dal greco e significa unico, solo mentre in spagnolo prende il significato di scimmie. Siamo lontano dai primati kubrickiani, niente più osso-clava ma bensì armi di ogni genere pronte a sparare e uccidere, mentre il massiccio bunker-monolite osserva in silenzio l’involuzione umana.

Monos è soprattutto un film sulla guerra e ne esplora ogni suo carattere nella seconda parte, dove un cambio repentino di location sposta i ragazzi nella fitta giungla satura di citazioni che fanno eco a lavori quali Apocalypse Now e Aguirre. Più carnale, fisico e brutale rispetto al lavoro iniziale di presentazione, dove la meraviglia è legata più al porsi continuamente domande sul come è stato possibile realizzare sequenze del genere. Non che sia l’obiettivo primario, eppure sembra esserlo, in una tensione altalenante per colpa di una narrazione che diventa sempre più astrusa.

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Probabilmente è questo non rispondere a nessun tipo di domanda a rendere il cuore di tenebra di Alejando Landes ancora più oscuro. A rimanere sottopelle è l’ambiente fantascientifico fatto di presenze mostruose in agguato, un luogo privo di elementi fantastici, invocati solamente attraverso gli elementi principali del linguaggio cinematografico: immagini e suoni. E il lavoro su questi è straordinario se non uno dei migliori di quest’anno (d’altronde c’è l’immensa Mica Levi dietro la colonna sonora).

Un’opera difficile da dimenticare soprattutto per le modalità con cui si insinua nella mente dei suoi spettatori: lasciando domande aperte e che avrebbero come risposte gli orrori recessi nella mente del suo autore. All’immaginazione il compito di rispondere a tutti i perché, ed è forse questa la cosa più spaventosa e inquietante del film.

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