La Ruota del Tempo 3, la recensione: la rinascita del fantasy televisivo

La terza stagione de La Ruota del Tempo è ora disponibile integralmente su Amazon Prime Video (trailer). La serie, in onda dal 2021, è un adattamento dell’omonima saga letteraria di Robert Jordan, il cui primo libro, Il mondo dopo il buio, fu pubblicato nel 1990. Realizzata da Amazon Studios, la produzione e la sceneggiatura sono state curate da Rafe Judkins (uno degli sceneggiatori di Uncharted). Questo adattamento ha suscitato da subito grande interesse e aspettative, data la complessità e l’ampiezza della trama originale, che ha richiesto un team creativo impegnato a riportare fedelmente sullo schermo l’epicità e le sfumature della saga letteraria.

Di fatto, per i cultori dell’epic high fantasy, la terza stagione de La Ruota del Tempo è come una sete finalmente placata: ha colmato un vuoto che da tempo aspettava di essere riempito. Nel vasto panorama del fantasy televisivo contemporaneo, La Ruota del Tempo si è distinta come uno dei pochi esempi autentici del genere, nel senso più classico e letterario del termine. Tutto nella serie, dalla maestosità dei paesaggi, alla solennità del linguaggio, dalla lotta universale tra Luce e Oscurità, da una magia antica e codificata, dai paesaggi maestosi e naturali e dal viaggio intrapreso dall’eroe predestinato (destinato a salvare o distruggere il mondo) insieme ad un gruppo di prescelti richiama la grande tradizione dell’epica fantasy inaugurata da Tolkien.

Sebbene ci troviamo all’interno del mito, la serie ingloba anche tratti più disillusi e politicamente «terreni», tipici del fantasy low magic e grimdark, come Game of Thrones. Nella terza stagione, infatti, emergono: giochi di potere politico, ambiguità morale, tradimenti, personaggi grigi, alta mortalità, imprevedibilità narrativa e contenuti più marcatamente «adulti». Non solo, quindi, profezie millenarie, spade e un unico nemico da abbattere: nella terza stagione gli amici diventano nemici e tutto ciò che era nascosto, che tramava dietro le file della Ruota, viene finalmente svelato.

È proprio questa eterogenea commistione tra modernità ed epicità a rendere La Ruota del Tempo oggettivamente intrigante: non è altro che lo stesso spirito a muovere l’universo narrativo della serie, ossia uno sguardo ciclico e spirituale sul destino. La storia non procede in linea retta, ma ruota, si ripete, si trasforma. Ogni personaggio è la reincarnazione di qualcosa o di qualcuno, e ogni scelta riecheggia nella trama del tempo, dove il viaggio non è soltanto avventuroso, ma anche profondamente esistenziale.

Con questa nuova stagione, La Ruota del Tempo approda finalmente a una piena maturità narrativa e visiva. Dopo due stagioni introduttive, necessarie per codificare le coordinate di un mondo vasto, stratificato e mitologicamente denso, la serie trova il coraggio di espandersi, di osare, di scavare più a fondo nei propri temi e nei propri personaggi. E lo fa con una consapevolezza stilistica e strutturale sorprendente, mettendo in scena non soltanto magie e battaglie, ma un vero e proprio universo culturale vivo e pulsante.

Narrativamente, le prime due stagioni aderiscono a una struttura classica dell’epic high fantasy: Nella prima, gli eroi rispondono alla chiamata del destino, si separano dal mondo noto e si pongono in cammino verso l’ignoto. Il loro movimento è fisico prima ancora che interiore: attraversano città, regioni, deserti e castelli, non tanto per compiere imprese, quanto per prendere posizione nel grande disegno che li attende. La seconda stagione, invece, li cala nelle conseguenze di quel viaggio: ciascuno affronta i propri demoni, le proprie scelte, le prime vere prove. È il momento in cui l’epica si fa etica e i personaggi, finalmente, cominciano a mostrarsi per quello che sono: fragili, divisi, imperfetti, e dunque umani.

Andando al punto, con la terza stagione La Ruota del Tempo non si limita a proseguire: comincia davvero a raccontare. Ma, partendo dall’impostazione della prima stagione e dall’introspezione della seconda, cosa ci racconta di nuovo?

Uno dei pregi più evidenti è la volontà di restituire i popoli della saga nei loro dettagli più autentici, sia sul piano simbolico che visivo. Non si tratta di semplici cornici esotiche, ma di veri e propri sistemi culturali resi vivi e coerenti, con il proprio linguaggio, rituali, storia e politica. Un’attenzione da manuale, senza la quale non può esistere high fantasy, o meglio, non ci si può definire tali. In questa stagione, l’ambientazione smette di essere sfondo e diventa protagonista silenziosa. Tutte le civiltà rappresentate sono riconoscibili non solo visivamente, ma per la loro visione del mondo, per la filosofia che guida le loro scelte, per il modo in cui si relazionano al potere, alla magia e al destino, dunque, alla Ruota.

In tutto questo, i costumi giocano un ruolo cruciale, ed è proprio qui che molte altre serie fantasy contemporanee hanno fallito. In un fantasy di tale portata, gli abiti non sono semplici elementi di scena pomposi e colorati, ma veicoli narrativi potenti: codificano gerarchie sociali e raccontano storie antiche. Ogni elemento di vestiario è pensato per dire qualcosa, per raccontare visivamente ciò che i dialoghi non esplicitano. Basti pensare alle stesse Aes Sedai, che si distinguono per l’eleganza rituale dal resto del mondo e, tra loro, per distinzione cromatica.

Ma è una forte svolta tematica a cambiare le regole del gioco. Nella terza stagione arrivano: tradimenti, alleanze politiche, lotte di potere e crisi identitarie. Ciò che neanche si sapeva essere nascosto viene svelato, ridefinendo amici e nemici; La Ruota del Tempo riesce a fare ciò che molte grandi opere di epic high fantasy non osano fare: abbattere parte dei propri codici, arricchendo la narrazione con sfumature politiche e moralità grigie. Gli eroi non sfidano più soltanto il destino o il grande nemico (l’Oscuro) ma sono all’interno di forze politiche, sociali e le fazionarie. Le decisioni non sono più semplici scelte di lotta per la salvezza scegliendo la cosa giusta da fare, si deve scegliere che pedina della scacchiera muovere giocando d’astuzia.  

Proprio da questa avventurosità narrativa nascono i problemi, detta in maniera più grezza i «difetti» di questa terza stagione.
Notiamo una certa diseguale gestione del ritmo narrativo, sia rispetto alle stagioni precedenti che all’interno degli episodi stessi. Alcuni episodi risultano densissimi, con numerosi spostamenti e trame intrecciate, mentre altri rallentano vistosamente senza un apparente motivo narrativo. Certo, alternare le informazioni tra gli episodi è certamente più utile di addensare di informazioni il finale di stagione, come è stato invece per Gli Anelli del Potere.

Inoltre, i protagonisti sembrano muoversi su un binario narrativo separato rispetto al resto dei personaggi, non solo nella trama, ma anche nei comportamenti. Sono quasi del tutto esclusi dai conflitti politici, immersi invece in una missione personale contro il male, con l’unico punto di contatto con la Torre rappresentato dall’amore tra Moiraine e Siuan Sanche, e dalle scoperte di Nynaeve su Liandrin. Perfino Elayne, la principessa di Andor, sceglie di emarginarsi dalle sorti del suo stesso regno. In altre parole, la stagione si sviluppa su due linee parallele che forse troveranno una sintesi più compiuta nella prossima. Non si tratta quindi di un errore narrativo, ma di una scelta che può risultare estraniante, in particolare nella costruzione del gruppo e nella coesione evolutiva dei protagonisti.

Alcune storyline avrebbero meritato una maggiore cura, come quella di Mat, le cui scene risultano a tratti scollegate dal flusso narrativo principale, pur regalando momenti di grande suggestione (come l’incontro nel Portale dei Finn). Ma a risentirne maggiormente è Rand: nonostante la sua centralità, la sua evoluzione rimane sospesa, l’oscurità interiore affiora, ma non esplode. Parliamo del Drago Rinato, l’Al-San al-Gaib della Ruota, colui chiamato a scegliere tra la via di Luke o di Anakin, eppure Rand resta ancorato a un limbo, senza attraversare pienamente la propria ambiguità. Il suo conflitto interiore rimane ovattato e lo spettatore fatica a sentirne davvero il peso.

A differenza della prima stagione (la chiamata all’avventura) e della seconda (il tormento dell’identità), nella terza stagione Rand è ormai il Drago Rinato: questo status lo rende più figura che uomo e ciò tende a congelarne lo sviluppo. Rand compie molte azioni e prende decisioni, ma non attraversa veri momenti di crisi o mutamenti profondi. Le sue relazioni restano in una zona di ambiguità, la sua interiorità rimane schermata, e spesso rappresenta più un «motore» degli eventi che un personaggio in continua scoperta di sé. In questo senso, gli eventi si muovono attorno a Rand, più che dentro di lui. Rand sta accumulando potere, ma non è ancora del tutto chiaro come questo potere lo stia cambiando interiormente.

Fino a questo punto, abbiamo parlato senza spoiler, ma ora è necessario per restituire un elogio all’episodio Goldeneyes, il settimo della stagione. Questo episodio si distingue per il modo in cui la regia rende finalmente tangibile la potenza di una battaglia di assedio, un elemento essenziale del fantasy epico, ma che raramente trova spazio sul piccolo schermo. La regia riesce a tradurre visivamente la frenesia, la brutalità e la strategia di un assedio, facendoci vivere un attacco a un piccolo villaggio di pastori da parte dei temibili Trolloc. In questa scena, semplici pastori erigono trincee come scudi contro il nemico, e ogni decisione è accompagnata da tensioni politiche e morali. A questi elementi si aggiunge l’attesa per i rinforzi dei Manti Bianchi, un esercito grigio e dunque pericoloso a cui viene chiesto aiuto. In questo contesto, la serie solleva una domanda emotiva che, pur in scala ridotta, richiama alla mente l’attesa di Gondor nei confronti di Rohan. Non si tratta di fare un paragone diretto, ma di sottolineare come la serie cerchi di evocare, seppur in modo più contenuto, quella stessa emotività che permea l’epica delle grandi battaglie.

La figura di Perrin, si carica di una forte valenza emotiva durante l’assedio, ci coinvolge profondamente, rendendolo il personaggio finora più complesso e combattivo tra tutti i protagonisti dei Fiume Gemelli: non è solo un guerriero, ma un uomo che affronta conflitti profondi sia sul campo di battaglia che dentro di sé. La sua lotta interiore si fonde con quella esterna, trasformandolo in un protagonista che ha davvero vissuto, nella sua pelle, l’orrore della guerra e le sfide morali che ne derivano. Questo lo rende il personaggio a cui ci affezioniamo di più non solo per le sue azioni, ma anche per la sua vulnerabilità. Perrin sa bene quale sia la giusta via e diviene ai nostri occhi il vero eroe di questa stagione. In un contesto così drammatico e violento diventa l’emblema del combattente che non si arrende mai, sia contro il nemico che contro il proprio destino, pronto a sacrificare se stesso.

Tornando ai protagonisti, la terza stagione si conclude lasciandoli ancora e irrimediabilmente in viaggio: non possono fermarsi, e forse nemmeno desiderano farlo davvero. Rand, Mat e Nynaeve scelgono/accettano volontariamente il movimento come destino, mentre Egwene sembra incapace di affermare una volontà propria, restando trascinata dagli eventi che orbitano attorno a Rand, nonostante sognasse da sempre la Torre Bianca. L’unico a tentare consapevolmente di fermarsi è Perrin, che torna a casa e cerca con tutte le sue forze di difenderla: non vuole fuggire, non vuole cedere, è disposto a morire pur di restare. Ma sarà proprio una spinta morale, non fisica, a costringerlo a ripartire, accettando il sacrificio della cattura da parte dei Manti Bianchi per salvaguardare il suo popolo.

Volontariamente ignorando la questione della fedeltà al materiale originale e libertà di adattamento, In definitiva la terza stagione di La Ruota del Tempo non solo alza il livello qualitativo della serie, ma conferma la volontà degli autori di costruire un fantasy epico complesso che, nel panorama dello streaming attuale, è un risultato tutt’altro che scontato.

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