In una serena mattina a Bologna, all’indomani della Liberazione, una giovane infermiera dell’esercito americano (Mildred Gustafsson) si affaccia nella bottega di un barbiere per chiedere indicazioni per Ferrara. Galeotto fu un fugace e appena sufficiente sguardo rivolto ad un giovane cliente seduto tra le poltrone per far sì che questi si innamori della ragazza americana. Filippo Scotti, Premio Marcello Mastroianni nel 2021 per il suo Fabietto in È stata la mano di Dio, è il protagonista de L’orto americano (clip), l’ultimo film di Pupi Avati, presentato in chiusura all’81esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Un anno dopo, Iowa. «Lui», il nostro protagonista affetto da disturbi psichici e di cui non sapremo mai il nome, sceglie di tentare la fortuna di scrittore nel Midwest americano, accompagnato dal ricordo dei suoi cari defunti e della giovane amata; lui, che dei suoi libri in patria non è riuscito a vederne pubblicato nessuno. Ma il caso – o meglio, la fin troppo evidente penna dell’autore, vista l’inverosimile coincidenza – vuole che si ritrovi vicino di casa di un’anziana donna (Rita Tushingham), affranta dal dolore perché si sono perse le tracce di sua figlia Barbara, partita ormai da tempo alla volta dell’Italia per diventare infermiera di guerra. Separati solo da un orto, in cui, tra grida di aiuto, il giovane farà macabri e agghiaccianti rinvenimenti, il protagonista si convince facilmente che la Barbara in questione sia proprio la ragazza di cui si è perdutamente innamorato, e parte per Argenta, verso cui gli indizi conducono, alla ricerca della verità sui fatti avvenuti.
Ne L’orto americano tornano ancora una volta come protagonisti indiscussi i luoghi dell’Emilia cari al cinema di Avati. Una terra desolante e desolata, dimenticata da Dio, in cui si consumano efferati crimini, alle vittime dei quali un’affrettata legalità non riesce a dare giustizia. E qui, tra le macerie di un’Italia messa in ginocchio dalla guerra, si muove il giovane scrittore, in una zona franca in cui i cadaveri sono nient’altro che merce per il mercato nero, in un lembo di terra in cui il confine tra vita e morte si è fatto labile al punto da condurre chiunque alla follia. Un midwest italiano che fa da eco alla sua controparte americana, ambientazione della prima mezz’ora del film, in cui il protagonista è inseguito dagli stessi spettri e tormenti da cui cerca di fuggire via abbandonando la terra natia. E gli spettatori sono chiamati a seguirlo nella sua dantesca discesa negli Inferi.
Ma, pur partendo con le migliori intenzioni, L’orto americano non sembra altro che un mero esercizio di stile. Girato in un sobrio bianco e nero, con richiami a quegli autori che hanno fatto la storia del cinema del paese a stelle e strisce, primo tra tutti Hitchcock, il risultato non si discosta più di tanto da un pastiche fatto di autocitazioni e riferimenti ai grandi del passato. Il tutto intriso di uno sguardo nostalgico ad un tempo trascorso che si fa fatica a lasciar andare. Poco spazio viene concesso ad un approfondimento della complessità dei vari personaggi, che sembrano sfilare l’uno dopo l’altro, in maniera sterile, senza una percepibile distinzione tra essi e i morti che affollano gli album di fotografie del protagonista. E quest’ultimo è altrettanto ripiegato su sé stesso, senza un vero spiraglio di evoluzione, a cui la sensibilità con cui Filippo Scotti è solito addentrarsi nei ruoli, in punta di piedi, non riesce a porvi rimedio.
L’insieme calato in una storia altrettanto acerba, che fatica a procedere in maniera lineare, e il cui unico colpo di scena non appare poi tanto inaspettato agli occhi degli spettatori, come ci si auspicherebbe. Il risultato è una narrazione che ostenta una patina di orrore e thriller gotico, elementi che hanno reso indimenticabile i lavori precedenti del regista bolognese – basti pensare al fortunato La casa dalle finestre che ridono – ma che non raggiunge gli esiti sperati. Non trova qui alcuno spazio la suspense, a cui si sostituisce una piuttosto discutibile vena di assurdità (che ha suscitato qualche risata in sala e che di certo non era nelle intenzioni dell’autore). Sembra che stavolta Avati sia rimasto impantanato in quel miscuglio di acqua dolce e acqua salata evocato da uno dei personaggi della storia.
Dopo il fantasmatico dramma de La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il maestro torna dunque al filone da lui consacrato, il gotico padano, ma lo fa nel modo più scialbo e annoiato possibile, senza alcun tipo di rinnovamento dello stesso. A poco serve un’ulteriore prova della grande consapevolezza del mezzo se la storia rimane zoppicante. Unica nota di merito è da attribuire a Scotti e Tushingham che, come in un passo a due nelle scene che li vedono protagonisti, cercano di dare vigore alla fragile carica emotiva della narrazione, seppur a fatica.
Un vero peccato una simile conclusione per questa edizione della Mostra d’Arte Cinematografica che tra i suoi alti e bassi ha dato prova di un cinema che, pur timidamente, sta tentando di reinventarsi. Speriamo che dopo la triste parentesi de L’orto americano Avati dia prova di più sostanza e meno arte. D’altronde, “morto” un Pupi se ne fa un altro.