L’Oro del Reno, la recensione: acqua, terra e fango

L'Oro del Reno recensione film di Lorenzo Pullega DassCinemag

Wagner narrava in musica di un tesoro nascosto fra le acque del Reno. Fra ninfe, eroi e divinità, il compositore attinse a piene mani dalla tradizione epica tedesca. Nonostante il titolo, L’Oro del Reno (trailer) di Lorenzo Pullega, presentato all’International Film Festival Rotterdam, non ha nulla di nordico: non si può dire, però, che non abbia nulla di mitico.

Un gruppo di appassionati d’opera giapponesi si reca sul Reno per omaggiare la musica di Wagner: in costume, percorrono il fiume in barca e riproducono la musica del compositore con un grande stereo. La melodia si diffonde per le campagne, come in un sogno. C’è solo un problema: non sono in Germania, ma sull’omonimo corso d’acqua italiano. La campagna in questione è quella emiliana, e il paesaggio, se non è noto ai turisti stranieri, è di vitale importanza per gli abitanti del luogo. Per questo, una stramba associazione locale incarica un regista (Neri Marcorè) di immortalare la storia del fiume. Il risultato è un documentario che racconta dell’osservato quanto dell’osservatore.

Il primo film di Lorenzo Pullega (emiliano) è quindi una celebrazione delle sue terre. Hotel infestati e inondazioni storiche, spiriti e tradizioni contadine scorrono sullo schermo. Il regista raccoglie queste storie che galleggiano sul pelo dell’acqua, lungo il percorso dalla sorgente alla foce. Non importa se siano reali o meno: raccontano di un popolo, le sue radici folkloriche, e quelle dello stesso regista. È un racconto che solca epoche diverse, attraversandole, senza appartenere a nessuna: in questo il carattere mitico e quasi universale del film, un’epopea per fiume, senza tempo, che ricostruisce l’identità di un popolo.

L'Oro del Reno recensione film di Lorenzo Pullega DassCinemag

Una voce fuori campo, quella di Neri Marcorè, ci guida alla scoperta del fiume emiliano. È lui il regista anonimo e senza volto con la missione di immortalare il paesaggio del Reno. Ma il flusso dei suoi pensieri si confonde con le parole ad alta voce, ottenendo un’aura straniante che rende il documentario estremamente intimo. Ciò che viene anticipato dall’effetto della voce viene presto eseguito anche dalle immagini. In questo modo, alle riprese realistiche delle sponde si alternano scene oniriche, avvolte dalla nebbia o nelle profondità del sottosuolo. È il caso del racconto dell’alluvione di Durazzo, che vede una angelica Rebecca Antonaci (Finalmente l’Alba) in abito nuziale, che rema su un letto matrimoniale in cerca del promesso sposo.

La pellicola alterna episodi tragici, ad altri dai toni fantastici o addirittura comici, come nelle scene di vita in vacanza dei bagnanti o della routine delle anziane alle prese con i bagni di fango. Una fotografia attenta al dettaglio, incline sia alla paesaggistica che alla ritrattistica, favorisce l’immersione nelle acque del Reno. Davanti alla moltitudine di questi scorci, lo spettatore può solo farsi trasportare dalla corrente del racconto, lasciandosi andare all’emozione e alla nostalgia. È un film di evocazione, che necessita dell’abbandono del pubblico, pena il disorientamento nell’antologia di racconti, accomunati unicamente dall’appartenenza ad un luogo ben definito.

L’Oro del Reno è dunque un film fuori dal tempo, su un territorio, un popolo, la sua vita e i suoi continui cambiamenti. Tutto scorre dolcemente davanti agli occhi degli spettatori, in una favola che sboccia dal fertile fango delle terre emiliane e delle acque del Reno.

In sala dal 3 luglio.

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