Kagemusha, l’ombra del guerriero compie 40 anni

Le immagini di Kagemusha hanno influenzato generazioni di cineasti e sono ancora oggetto di imitazioni e citazioni dalle generazioni emergenti di artisti visivi e perfino game designer.

Nel 1980 George Lucas restituì, parole sue, un favore a Kurosawa Akira finanziando con Francis Ford Coppola il film giapponese Kagemusha e rendendolo il più costoso della storia del cinema del sol levante dopo I sette samurai (1954). Il favore a cui fa riferimento Lucas sarebbe la realizzazione di film come La fortezza nascosta da cui avrebbe tratto insieme ad altri classici del maestro giapponese le basi per il suo più grande successo: Guerre stellari (1976). Nella lingua giapponese la parola “kagemusha” significa “sosia”, più letteralmente “guerriero ombra” e la storia del film si basa su fatti realmente accaduti nel 1500.

Il condottiero Takeda Shingen persuase il consiglio ristretto a nascondere la sua morte ed ingaggiare un kagemusha per sostituirlo, l’operazione consentì al feudo due anni di pace che furono brutalmente interrotti dalla brutale ecatombe di Shidaragahara disposta dal figlio del saggio condottiero. Kurosawa era attratto dal soggetto dal sapore fortemente pirandelliano e dall’idea di raccontare la caduta di un antico clan del Giappone, Kurosawa avrebbe voluto girare il film nel 1944, ma fu impossibile per scarsità di mezzi economici e per la totale assenza di cavalli, interamente confiscati dall’esercito americano.

In verità una delle ragioni del film, per ammissione di Kurosawa, era quella di dimostrare di avere le capacità di raccontare in chiave epica giapponese i grandi classici occidentali di William Shakespeare, sebbene Kurosawa avesse già raccontato il Macbeth con Il trono di sangue, gli era costato molta fatica trovare i finanziamenti per una sua versione del King Lear. Dunque la produzione di Kagemusha precede quella di Ran (adattamento del Lear) per ragioni strategiche oltre che artistiche.

Akira Kurosawa è noto per le sue scene di massa e battaglie con cavalli fin dai tempi del film I sette samurai, questa passione deriva per ammissione del regista dalla pittura europea e dal cinema western americano.

Per il ruolo dello shogun e del suo sosia Kurosawa scelse l’iconico Katsu Shintaro, noto a livello internazionale per i primi ventisei film di Zatoichi, il samurai cieco creato dal manga di Shimozawa Kan. In merito Kurosawa ricorda che all’epoca del film la star giapponese aveva seri problemi di alcolismo e, incapace di proseguire il lavoro, lasciò (alcuni dicono che fu cacciato) il set dopo il primo giorno di lavorazione. Così il regista giapponese dovette scegliere a produzione iniziata un nuovo protagonista. La scelta ricadde sul magnetico Nakadai Tatsuya, attore scoperto negli anni cinquanta dall’amico e collega di Kurosawa, Kobayashi Masaki. Kurosawa e Nakadai si erano conosciuti sul set del film I sette samurai ed avevano spesso lavorato insieme in film importanti come Yojimbo la sfida del samurai (1961) e il suo seguito Sanjuro (1962).

L’intero film si basa su una chiara parabola pirandelliana del doppio, grazie anche alla ricca conoscenza del regista Kurosawa sia del teatro giapponese che di quello occidentale. Il tema tradizionale del mondo come teatro globale delle emozioni umane qui si concretizza più che nelle altre opere del maestro giapponese e si unisce al suo amore per la pittura italiana che cita ossessivamente nelle scene di battaglia, da Piero della Francesca a Paolo Uccello. Sono tanto pirandelliani quanto shakespeariani i temi del gioco fra verità e finzione che permeano la sceneggiatura del film o la fragilità delle vicende umane come la stupidità della guerra e la natura effimera delle ambizioni umane.

Il film a quarat’anni dalla sua uscita è ancora godibilissimo e coinvolgente e si rivela uno stupendo affresco etico e poetico che omaggia tanto l’arte orientale quanto quella occidentale, raggiungendo i vertici della filosofia di Kurosawa e sintetizzandone i basilari principi morali e artistici. Il film venne insignito della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1980 ex equo con All that jazz di Bob Fosse.

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