Jazzy, in concorso nella sezione Progressive Cinema della diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma, è guidato da un’incontenibile carica energica. Tale carica, della medesima natura di quella che anima l’età dell’infanzia, assume nel film per lo più segno negativo. Non perché in grado di causare danni permanenti con la sua potenziale portata distruttiva, piuttosto in quanto originatasi da un profondamente intimo, costruttivamente doloroso, senso di malinconia. È sempre all’interno della cornice di questo sentimento, infatti, che tornano alla mente, per frammenti sfocati, i ricordi più significativi del sé bambino.
In Jazzy l’infanzia e la pre-adolescenza rifuggono dalla diffusa e riduttiva narrazione che di loro si dà come “età del gioco”, per manifestare in tutta la sua pienezza il tratto di malinconica nostalgia che, senza scampo, le contraddistinguono. Nostalgia di una vita mai vissuta, della vita che prevedibilmente si vivrà e dell’esistenza che forse è stata attraversata prima che quella presente prendesse avvio. Jazzy rappresenta con fare esemplare quella paradossale tendenza del vivere umano per cui la nostalgia, sentimento per definizione rivolto al passato, attecchisce più facilmente sui meno esperti del mondo, anziché su chi di esso ne ha già fatto esperienza.
Il film si inscrive a pieno titolo nel genere coming of age, portando sullo schermo un delicato spaccato della vita di Jasmine (Jasmine Bearkiller Shangreaux), dai sei ai dodici anni di età. Jazzy – come viene comunemente chiamata – è una bambina appartenente alla tribù Oglala dei nativi americani Lakota e vive in una cittadina del South Dakota: qui spende la quasi totalità del suo tempo tra i banchi di scuola, sui sedili dell’autobus che la riporta a casa e protetta dalle mura della sua cameretta, il tutto in compagnia della migliore amica Syriah (Syriah Fool Head Means). Una mattina, all’improvviso, questa inizia ad evitare qualsiasi contatto con Jasmine, che, dopo aver scoperto come causa dell’allontanamento un litigio tra le rispettive madri, viene anche a conoscenza dell’imminente trasferimento di Syriah e della sua famiglia. È questo l’evento scatenante di una crisi nell’animo di Jazzy, che, nella ricostruzione di sé senza Syriah e del rapporto a distanza con l’amica, troverà una fondamentale occasione di crescita.
Lo stile cinematografico adottato dalla regista e cosceneggiatrice Morrisa Maltz è di impronta documentaristica. Ne sono segni evidenti: i dialoghi, perfettamente credibili sulla bocca di interlocutori preadolescenti, sia per i contenuti che per l’articolazione di questi; l’uso predominante della macchina a mano, con cui i giovani attori/personaggi vengono zavattiniamente pedinati, seguiti nei loro spontanei movimenti attraverso lo spazio filmico; la recitazione, da parte di tutto il cast giovanile eccezionalmente naturale, in particolar modo nel caso delle due interpreti protagoniste, sulle cui vicende personali si baserebbe in parte la storia.
Grazie pure al realismo della forma, Jazzy realizza un crudo ritratto del profondo e durevole senso di sconforto che accompagna l’abbandono da parte di un amico vissuto in età infantile. L’amicizia è la declinazione più intima e preziosa che la connessione umana può assumere sino alla preadolescenza. La rottura di un simile rapporto lascia nel bambino un grosso vuoto, a maggior ragione considerando che spesso avviene di punto in bianco e senza spiegazione. In tenera età, infatti, non si ha ancora avuto modo di comprendere che le relazioni interpersonali non sopravvivono di per sé stesse nel lungo termine e che, a tal fine, necessitano di un intervento attivo di chi vi è coinvolto per la messa in luce e l’eventuale risoluzione delle criticità. Il bambino, in sostanza, non è conscio del bisogno di cambiamento interno per affrontare il mutare delle condizioni esterne, di fronte alle quali, dunque, fugge.
Maltz riesce a definire l’atmosfera malinconico-nostalgica in cui sono immerse Jasmine e Syriah anzitutto attraverso il lavoro di due collaboratori, quello del direttore della fotografia Andrew Hajek (anche cosceneggiatore) e quello del compositore Alexis Marsh. Hajek riprende le bambine/preadolescenti, come anticipato, rigorosamente con macchina a mano, tecnica che traduce sul piano visivo l’agitazione e la perdita di orientamento che abitano l’interiorità delle protagoniste. Lo stesso Hajek, poi, cattura meravigliosamente le ore più tarde del pomeriggio, quelle crepuscolari e serali che fanno da sfondo alla seconda macrosezione del film, successiva al trasferimento di Syriah, in evidente dialettica con la prima, in cui, d’altra parte, le due amiche sono ancora ignare della loro imminente separazione e le inquadrature inondate dalla luce solare. Spostandoci ora sul piano uditivo, l’ipnotizzante colonna sonora di Marsh si dispiega come un tappeto di melodie elettroniche che fanno allineare il battito cardiaco dello spettatore a quella nostalgica carica energica che regola i moti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Jazzy si configura per gran parte della sua durata come il ‘regno dei piccoli’. Degli adulti della storia sono percepibili soltanto le voci e i corpi ripresi di spalle sino alla sequenza di chiusura, in cui Jasmine, Syriah e le loro famiglie si riuniscono per la cerimonia in onore della defunta nonna di Jazzy, della cui mamma, ad esempio, vediamo solo ora per la prima volta il viso. A livello di racconto, è significativo a proposito del ‘primato dei bambini sui grandi’ che il motivo del diverbio tra la madre di Jasmine e quella di Syriah non venga mai rivelato, come ad intendere che, nell’universo filmico costruito da Maltz, a contare siano soltanto le ragioni dei più giovani. La visione che viene offerta sul mondo rappresentato non va oltre la percezione fanciullesca delle due protagoniste; lo spettatore stesso riadotta, anche se solo temporaneamente, uno sguardo da bambino.
Maltz, al secondo lungometraggio di finzione, si dimostra già una cineasta dall’autorialità definita e matura. A lei va il merito di essere riuscita ad orchestrare i diversi reparti di lavorazione del film per la realizzazione di un’opera fortemente coesa e, proprio nella sua organicità, in grado di orientare la percezione sensoriale ed emotiva del pubblico. Jazzy vale decisamente l’esperienza in sala.