Le poltrone in pelle della sala, prima immacolate, cominciano lentamente a tingersi di piccole chiazze lucide. L’afa di luglio ha cotto per bene l’epidermide del critico, ora umidiccia e morbida. L’odore acre dei corpi traditi si mischia al sentore di burro fuso e sale dei popcorn caldi, tritati rumorosamente da cori di denti rabbiosi. Ogni tanto, come vino sfumato, si alza un disgustoso tanfo proveniente dalla bocca di qualcuno per cui le multinazionali dell’igiene orale incrementano periodicamente le dosi di mentolo nei dentifrici. Visioni di unto a sinistra e a destra. Nonostante l’aria condizionata, l’atmosfera si fa via via più densa, pastosa, malleabile. Comunque, per quanto sfavorevoli, le condizioni ambientali non sembrano sufficientemente gravose da porsi come alibi per l’indigestione del nuovo film di Michael Mohan, Immaculate – La prescelta (trailer). La storia è quella di Cecilia (Sydney Sweeney), novizia americana che, su invito di Padre Tedeschi (Alvaro Morte), giunge in un convento della campagna romana per prendere finalmente i voti perpetui. Ma il luogo, apparentemente di salvezza e redenzione, si rivelerà edificato su culti perversi ed orrori indicibili.
Prima di tutto, la volontà. Di base, l’operazione di recupero delle forme passate deve avere come fondamento strutturale una volontà, una motivazione. Motivazioni che non per forza devono tradursi nelle rielaborazioni critico-analitiche, nelle decostruzioni del genere o in forme intellettuali di riproposizione. La purezza e la semplicità dell’omaggio e della citazione, infatti, possono rivelarsi innanzitutto strategie divertenti e coinvolgenti; e però capaci anche di suscitare riflessioni radicali e complesse sui nuovi meccanismi narrativi, regimi di visione, derive di fruizione, et cetera. Niente di tutto questo sembra tuttavia sostanziare il film di Mohan: film come Mother Joan of the Angels, Black Narcissus, The Devils, persino Non si sevizia un paperino e Rosemary’s Baby, non sembrano rivivere nel film se non come le matrici originali da cui deriva l’anonima copia che Immaculate effettivamente è. Una copia così involontariamente (l’avverbio sottolinea l’ancor più grave artificiosità del prodotto) finta e gratuita, che per quanto il film possa esigere riconoscimenti dal passato, finisce solo per discostarsene. Il problema non risiede nemmeno nella generale incapacità di avviare un discorso strutturato, ma proprio nell’impossibilità delle immagini di suscitare le benché minime reazioni. È, più del sangue e delle perversioni monastiche, l’indifferenza che il film lascia il dato più inquietante, temibile, orrorifico.
In secondo luogo, il feticismo. A Roma sono essenzialmente due le categorie di esseri viventi più diffuse: gabbiani ed ecclesiastici. Ora, un qualsiasi romano potrebbe affermare con certezza (ed un indefinito sentimento d’amarezza sessista a fare da contorno) che le suore ambulanti per le strade della città difficilmente possiedono la stessa carica erotica delle giovani novizie di Immaculate. Evidentemente, le fantasie sessuali (del tutto rispettabili, per carità) del regista hanno preso il sopravvento sull’aderenza al reale, rendendo in primis la candida Sydney Sweeney una giovane aspirante pornostar in lizza per il titolo di suora più calda della stagione: in ginocchio di fronte ai priori al momento dei voti, divorata dagli occhi desiderosi del maschio, simboleggiando chiaramente un atto preciso; le voluttuose forme velate smascherate dal tessuto bagnato (o altrimenti sorrette in modo tale da offrirne una visione parzialmente sufficiente a far borbottare in sala romanissimi apprezzamenti); lo sguardo feticista ai piedi castigati; l’erotizzazione della vittima. Insomma, pur volendoci trovare motivi femministi di denuncia sulla sottomissione della donna, il feticismo imperialista di Mohan si impone subdolamente, svelando quindi il ricorso all’horror come pretesto per martirizzare gratuitamente il corpo femminile.
Infine, il discorso più essenziale, la storia. La narrazione, pur procedendo in maniera assolutamente coerente per un film horror, rispettando quindi meccanismi ed equilibri di gradazione ascendente, ci pone di fronte ad una storia talmente familiare che i topoi e i motivi convenzionali rendono la visione asciutta, dimenticabile, noiosa persino per le maratone notturne tra amici. Racconti simili sono diventati scadenti feticci per mestieranti, e pur volendo trovare aspetti che possano rendere quantomeno divertente l’esperienza filmica, ci si trova di fronte al nulla, all’aridità che ogni anno viene reiterata da quella che sembrerebbe essere una penuria creativa da parte dell’industria orrorifica (sia chiaro, con le dovute eccezioni). La sola simpatia, gli unici accenni di interesse che si possono trovare avidamente disseminati nel film sono rintracciabili nel personaggio di Gwen (Benedetta Porcaroli), ingiustamente bistrattata dalla sceneggiatura. Per il resto, la solita costante degli horror scadenti: il sangue sembra non voler comunicare altro dal proprio sadomasochismo fasullo, kitsch, estetizzando la violenza per il puro piacere di divertire lo spettatore facilmente eccitabile, in una storia che è copia di copia di copia.
Riesce ad evadere dalla totalità confusionaria unicamente il finale, dove il regista sembra tirar fuori quella maturità stilistica che però durante l’intero film rimane sopita, e in cui finalmente il corpo martirizzato di Cecilia si divincola dall’erotizzazione inopportuna di cui fino a poco prima soffriva: il terrore si fa realmente corpo, l’orrore realmente grido. Peccato i finali non facciano i film. E allora, fino a quando il genere non si libererà dall’estetizzazione morbosa, dal gusto effimero dell’osceno; fino a quando il corpo femminile non tornerà a farsi veicolo semiotico, mezzo di comunicazione; fino a quando la violenza continuerà ad essere particella a sé stante di un discorso che non riesce nemmeno a sfruttarne la cinegenia senza scadere nell’inadempienza concettuale; ecco, sino ad allora, che si ricordi: non si sevizia una novizia.
Al cinema dall’11 luglio.