Il bacio della cavalletta, la recensione: un respiro al buio

Il bacio della cavalletta recensione film Dasscinemag

Ma le cavallette hanno la lingua? A quanto pare sì, secondo Elmar Imanov, al suo primo lungometraggio da regista e sceneggiatore. Il film Il bacio della cavalletta (trailer), presentato al Berlinale Forum 2025 e distribuito in Italia da Trent Film, esplora un mondo dominato dalla tristezza e da visioni surreali.

Bernard (Lenn Kudrjawizki), scrittore freelance, conduce un’esistenza dai toni scuri. Infelice e irrealizzato, vive con una candida pecora, mentre i suoi unici contatti umani sono Agata (Sophie Mousel), con cui ha una relazione altalenante, e l’anziano padre Carlos (Michael Hanemann). Quando a quest’ultimo viene diagnosticato un tumore in stato avanzato, il figlio scivola ancora più in profondità nel suo vortice di incertezza. L’angoscia assume consistenza e dimensioni gigantesche: quelle di un’enorme cavalletta.

Il mondo di Bernard è lento, insapore e incolore, popolato da allucinazioni da incubo. Il protagonista è un uomo adulto che non ha ancora trovato la propria dimensione, e vive come un fantasma per le vie di Colonia, perennemente in transito. Ne sono un simbolo le frequenti scene nei vagoni della metropolitana: in viaggio verso chissà dove, tra una folla di sconosciuti indifferenti e impassibili. Il buio dei tunnel sotto la città rivive nell’appartamento dell’uomo, che ospita un gigante buco nero, in cui Bernard discende a notte fonda, quando cade nella disperazione più nera.

La pellicola adotta dei toni molto cupi, sia nella palette, dominata da sfumature di nero, blu e grigio, che nei dialoghi. Questi ultimi sono scarsi, pronunciati da personaggi che non sanno comunicare, per cui ascoltarli diventa secondario. Le informazioni principali si afferrano con gli occhi. Invece, pochi suoni diventano cruciali: una invadente colonna sonora techno, il rumore straniante di vecchie stampanti mal funzionanti, e in particolare i respiri. I personaggi sono affaticati, con il fiato corto, ma respirano ancora. Sono vivi, nonostante un senso opprimente di morte li segua come un’ombra.

Il bacio della cavalletta recensione film Dasscinemag

Talvolta, la sensazione di solitudine e incapacità di amare del protagonista viene spezzata dal tempismo delle sue osservazioni, che spiccano ironiche e grottesche. Il gusto per lo strambo e il simbolismo, incarnati dal bacio della cavalletta del titolo, ricordano pellicole come The Lobster di Lanthimos o i mostri deformi e le visioni di David Lynch. D’altra parte, l’inclinazione per l’assurdo non eclissa il reale dramma di un padre incapace di comunicare e di un figlio chiuso in sé stesso. Nonostante le diverse suggestioni che incorpora, il film riesce a essere originale, soprattutto grazie al suo peculiare modo di comunicare con il pubblico.

Tutto il film è pervaso da un linguaggio fortemente metaforico, il regista esalta al massimo la rappresentazione visiva di sentimenti difficilmente comunicabili a parole. In questo modo, vari episodi di riflessione sulla depressione e la morte, di per sé autonomi, sono tenuti insieme da un’esile linea narrativa, susseguendosi come perle su un filo. Questa accumulo di sensazioni visive può risultare difficile da seguire, impedendo al pubblico di empatizzare con personaggi volutamente distanti. D’altro canto, lo spettatore più propenso ad immergersi nell’atmosfera del film rischia di essere sopraffatto dalla sua cupezza, che si estende per due ore. Malgrado ciò, le metafore di Imanov garantiscono un forte impatto visivo ed emotivo che non lascia di certo indifferenti.

Il risultato è una pellicola che accompagna lo spettatore in una riflessione sulla tristezza, sospendendolo in un abisso al di fuori di ogni tempo e spazio. Il bacio della cavalletta è un film difficile da scrollarsi di dosso, come l’oscurità che Bernard sperimenta entrando nel suo buco nero. Usciti dalla sala, gli occhi saranno grati di rivedere la luce e i polmoni di tornare a respirare.

In sala.

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