#HPFF25: un festival irredento e appiccicoso

Hacker Porn Film Festival 2025 Dasscinemag

Della pornografia si potrebbero dire talmente tante cose da non riuscire a farle entrare su questa pagina; certo è che sia riuscita, nel suo modo tutto particolare, a non assentarsi mai troppo a lungo dal dibattito pubblico. 

Di recente è tornata a occupare uno spazio conteso e talvolta strattonato da tutti i lati: ne è testimone la serie-sensazione di Netflix Adolescence, che ha reso della diffusione tra i più giovani della pornografia violenta uno dei suoi snodi problematici. Soprattutto, la percezione è che nell’immaginario collettivo la pornografia susciti immagini piuttosto uniformate, sovente legate a quelle proposte dai grandi siti web pornografici più conosciuti e facilmente accessibili. 

Allo stesso tempo (sicuramente in Italia) la pornografia, come tutti sappiamo, e allo stesso modo della sessualità in generale, è pur sempre celata sotto al lenzuolo opaco del tabù, il che non rende affatto semplice riuscire a incasellarla, o descriverla accuratamente. Eppure, penso che alcuni progetti, come lo è l’Hacker Porn Film Festival, abbiano una potente capacità di rimescolare le carte, di attribuire nuove direzioni alle possibilità cinematografiche della pornografia e dare a noi che la consumiamo (o sarebbe meglio dire, in questo caso, guardiamo) nuovi spunti critici. 

L’Hacker Porn Film Festival si è svolto tra il 26 e il 30 aprile nel circolo Arci Trenta Formiche di Roma; sarebbe difficile immaginare un luogo diverso dalle sue cantine fumose per un festival come questo. A seconda delle contribuzioni che arrivano, per ogni edizione lo staff dell’HPFF sceglie delle categorie specifiche, sintomatiche quindi delle problematicità su cui gli artisti si interrogano di anno in anno. Tre sono state fra quelle più significative: Technological rave, ExperimentalAbout a body.

Hacker Porn Film Festival 2025 Dasscinemag

La categoria Experimental (dove per sperimentale si è intesa la modalità di rappresentazione, più che l’atto) testimoniava di una contaminazione con altri generi propri al videomaking contemporaneo; ad essere rappresentata è stata quindi la carica più strettamente erotica dei corpi, la loro potenzialità sensuale come mezzo per l’esplorazione di nuovi modi di fare cinema, piuttosto che una pornografia (letteralmente) nuda e cruda. Ne è un ottimo esempio Utopía (regia di Rubén Fabbri), accostamento ritmato di ricostruzioni in 3D di una serie di posizioni che sembrano tirate direttamente dal Kamasutra, in una decostruzione pixelata che somiglia più alla rappresentazione sinestetica dei suoni simil-techno di sottofondo che delle immagini stesse. Sul lato opposto dello spettro, The Glory Box (realizzato da Oil Productions) esplora il lato onirico, sfumato e spesso inspiegabile delle fantasie, in un locale burlesque al centro di un universo parallelo dove la danza e il mistero si fondono in un sogno erotico accessibile solo con gli occhi dell’inconscio.

Il più valido, e tenero, di tutti era però quello che forse si distingueva maggiormente dalla tendenza appena descritta, e cioè Anonymous confession (regia di Juliette Puch). Su uno schermo nero, i sottotitoli in fuori fase arrancano dietro a un monologo distante, il racconto di una storia finita e mai veramente compiutasi, della vergogna legata alla confessione dei propri sentimenti mista a un desiderio difficile a negarsi. La confessione anonima racconta dell’attesa di un appuntamento, dopo il quale probabilmente chi parla dovrà sobbarcarsi un respingimento e la negazione della stessa storia: a metà, il racconto si interrompe sulla scena dissacrante e sincera di una ceretta all’inguine, perché va bene che ci si attenda un rifiuto, ma comunque non si sa mai. 

Ha seguito una linea simile anche la sezione di About a body, dove il corpo è stato esplorato, raccontato e scoperto, vettore di piacere, di riso, di epifanie identitarie. Laddove What a body could do (di Mila Starosta e Hadrien Daigneault-Roy) trasferisce sul cibo, in un gioco inquietante ed estatico, tutte le limitazioni (che fino a poco prima non erano nemmeno pensabili come tali) dei nostri corpi così stranamente complessi e articolati. The elephant in the room (di abcde Flash) rimescola questi stessi limiti, ritrovando nuovi usi e costumi al genere (e non s’intende quello cinematografico), prendendolo il meno sul serio possibile; tutto questo all’interno di una stanza lontana anni luce dal mondo esterno, un piccolo luogo sicuro e felice dove le pratiche sadomaso possono diventare un gioco divertente e genuino. Ha brillato più degli altri il cileno TOP SECRET (di The Filthy Juan, JorgeTheObscene e Amadalia Liberté), che inscena un incontro omosessuale evidenziandone le goffaggini che nessuno ha mai il coraggio di nominare, ironizzando con simpatia e sincerità sulle faziosità dei ruoli e la nostra incapacità di ammettere quali siano veramente le parti del nostro corpo che possono realizzarsi come luoghi di piacere

Hacker Porn Film Festival 2025 Dasscinemag

Infine, forse la sezione più attesa e partecipata è stata Technological rave, per motivi probabilmente ovvi. Se è vero infatti che la digitalizzazione delle nostre relazioni (sessuali e non) ci preoccupa piuttosto largamente, gli artisti che si sono espressi sulla questione hanno mantenuto invece un atteggiamento generalmente positivo, spesso ironico e soprattutto mai arreso. Veli, schermi e quarti muri divengono sottili e attraversabili, con la forza dell’immaginazione (come succede in Gametes di Nova Lov, racconto tenero e poliromantico dell’esame per la congelazione dei gameti) o della finzione, nel caso di 4 walls di Patricia Puentes, Bartłomiej Bywalec e Andrzej Frankowski, dove una Sex-GPT personificata riesce a liberarsi dai suoi limiti informatici per farsi mettere al guinzaglio dalla sua client. Il più meritevole della sezione, se non del festival tutto è stato però Y2KAge (realizzato da Jazzy Boho): un sogno erotico dall’estetica reminescente i film di Star Wars viene bruscamente interrotto dalla voce del presidente Bush che parla dalla televisione, riportando la protagonista alla sua realtà futuristica di 25 anni fa, e lasciandole come unica possibilità di svago il suo cane robot, meno male che quest’ultimo guadagna il potere imprevisto di trasformarsi in un vero e proprio puppy sadomaso, così che il gioco possa continuare. 

All’orizzonte si prospetta un futuro incerto e disorientante: la pornografia ci preoccupa e insieme continua a farci vergognare (impedendoci quindi di poterla maneggiare seriamente), e insieme ci spaventa il suo lato che si realizza su schermo, la sua possibilità di sostituirsi completamente all’intimità fisica e presente. L’HPFF sembra ricordarci un’alternativa senza girarci troppo intorno: di fatto il problema non è mai stato la rappresentazione dei corpi e dei loro desideri su schermo (che altri non è che semplice successore della pagina di rivista), bensì il come e il chi; chi caparbiamente produce cinema pornografico indipendente lo fa per dare spazio e rappresentazione a corpi, metodi e desideri non conformi né conformizzanti, per offrire un’alternativa esplicitamente schierata a qualcosa che (per quanto poco ci piaccia ammetterlo) in fondo ci attira e affascina tutti. 

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