Galveston, la recensione del film dal creatore di True Detective

Galveston

Uscito nelle sale statunitensi nel 2018, Galveston (qui il trailer) arriva con due anni di ritardo anche nelle sale italiane, dove debutta il 6 agosto 2020. L’opera vuole trattare del viaggio esistenziale di Roy (Ben Foster), un sicario che, sfuggito a un attentato, intreccia la propria vita a quella di Rocky (Elle Fanning: Un giorno di pioggia a New York; All the Bright Places), una giovane prostituta allo sbaraglio come lui. Inizia così un road movie, non privo, però, di conflittualità produttive, che si rispecchiano all’interno del prodotto stesso, rendendolo a tratti interessante, ma complessivamente insipido. Adattamento dall’omonimo romanzo di Nic Pizzolatto (ideatore e sceneggiatore di True Detective), quest’ultimo, contrariato dalla resa finale del film, ne firma la sceneggiatura con lo pseudonimo di Jim Hammett. Infatti, nella realizzazione Mélanie Laurent (Bastardi senza gloria; 6 Underground), qui in veste di regista, rimodella l’intera trama, facendone a tratti perdere il senso.

Il romanzo del 2010 prende come presupposto la vicenda personale di Roy per parlare di persone, gli abitanti di un motel di Galveston, incapaci di vivere. Persone alla ricerca di una casa, di un futuro e di un passato. In ciò, il film, come sottolinea metaforicamente la stessa inquadratura d’apertura, riprende l’idea di un uomo dall’essenza frantumata. Di un uomo in cerca di un senso dell’esistenza, ma soprattutto d’appartenenza. Tuttavia, Mélanie Laurent taglia via tutta la parte del motel, che diventa solo una tappa di passaggio di un viaggio perpetuo, dove il protagonista non sembra voler trovare qualcosa. Sembra semmai voler sfuggire alla sua vita, alla sua identità, alla sua storia, alla morte stessa.

Il tutto porta a una sensazione angosciante, enfatizzata anche dall’abilità nella costruzione della texture delle inquadrature. Tale sensazione, sebbene dal punto di vista meramente estetico può essere accattivante, nella scelta stessa delle scene mostrate porta a una sensazione di nausea. Il filo viene perso più e più volte senza un reale motivo. Il senso del testo di partenza, oltre a essere totalmente stravolto, produce un’opera svuotata di significato, che viene a mancare a causa del suo essere a metà tra l’adattamento fedele e un qualcos’altro. L’impressione finale di Galveston è quella di un puzzle, interessante, ma a cui mancano diversi pezzi.

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