Fiore Mio, la recensione: la montagna che ci svela a noi stessi

Fiore Mio, recensione DassCinemag

Qualcuno dalla montagna scappa. Anche se vi è giunto pieno di entusiasmo, motivato a lasciarsi alle spalle la rumorosa vita in società per farsi curare ed epurare dalla rarefatta e pulita aria di alta quota. Basta poco perché ci si renda conto di quanto il dimorare lungo i pendii dei monti o nelle valli che li inframmezzano amplifichi un’altra specie di rumore. Quello prodotto dai moti dell’animo e della mente, percorsi da incessanti correnti di suggestioni, pensieri, ricordi. Questa particolare specie di rumore può rivelarsi per alcuni insostenibile. Per quelli che nella solitudine ci stanno soltanto se vi ci sono costretti e che il frastuono interiore, tutto insieme, prima di vedere i versanti dei monti ostacolarne la dispersione, non l’hanno mai sentito. E nell’udirlo, d’un tratto e dirompente, risuonare nella loro cavità cranica non hanno gli strumenti per regolarne l’intensità, per rintracciarne l’origine. E, allora, si preferisce il trambusto metropolitano, a cui almeno si è abituati, all’ingannevole, assordante quiete delle montagne.

Paolo Cognetti, Premio Strega 2017 per Le Otto Montagne (suo primo romanzo, di cui altrettanto di successo si è dimostrato l’adattamento cinematografico del 2022 a cura dei belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch), è invece del tutto a suo agio, in completa armonia nel mezzo del rumoroso silenzio montano che ha fatto da sfondo a tanti dei suoi più preziosi ricordi d’infanzia. Ce ne racconta nel documentario Fiore Mio (trailer), per cui si è posto, per la prima volta, sia di fronte che dietro la macchina da presa, oltre ad aver definito la struttura della narrazione. Tra il verde brillante dell’estate alpina e il candore autunnale dei versanti innevati che campeggiano nelle immagini, sempre spiccano le tonalità rossicce della caratteristica capigliatura di Cognetti. Questi – volendolo associare ad un archetipo narrativo – è un angelo viaggiatore che, come in un pellegrinaggio, ci guida lungo un itinerario di altitudine crescente, le cui tappe, fisiche e spirituali, sono i luoghi della sua fanciullezza e gli incontri con gli affini e, al contempo, spiccatamente eterogenei tipi umani che li tengono in vita.

Fiore Mio, recensione DassCinemag

Sin dallo scorrere dei titoli di testa – in rosso acceso, rigorosamente posizionati sullo sfondo bianco immacolato dell’area delle inquadrature in cui compare la neve – lo spettatore rimane a bocca aperta dinanzi alla sterminata bellezza dei monti in sé e del modo in cui l’obbiettivo del direttore della fotografia Ruben Impens ne coglie la maestosa aura. Impens (collaboratore anche di Van Groeningen – non solo per il già citato Le Otto Montagne, ma anche per Beautiful Boy – e di Julia Ducournau – per Raw e Titane) adotta per lo più campi lunghi, inquadrature molto larghe che tentano affannosamente di abbracciare l’enorme possanza delle austere vette. E in questo hanno indubbio successo. La postura mantenuta dallo sguardo del dop è contemplativa per l’intera durata del film: la cinepresa, posta alla dovuta distanza dalla scena, rimane fissa e concede al pubblico il tempo necessario per adattarsi all’andamento (solo apparentemente) lento e rilassato del vivere sui monti e per entrare in punta di piedi nell’intima prospettiva di Cognetti sui luoghi della sua memoria.

Contribuisce all’intimità di Fiore Mio anche la colonna sonora realizzata dal cantautore indie Vasco Brondi, che compare nel documentario a pranzo con lo stesso Cognetti. «Faccio delle canzoni che poi…non è che sia proprio così allegra da osteria […] poi in questo silenzio, è la condizione perfetta per suonare». Lo scambio è carico di tenerezza ed è sufficiente a rappresentare la sinergia, sia artistica che umana, che lega lo scrittore/cineasta al musicista. Le parole e le melodie di Brondi riempiono il silenzio delle scene che mostrano i movimenti dell’interprete/regista da una tappa all’altra del suo viaggio. La semplicità delle composizioni strumentali, la profondità della voce e le sbavature dell’intonazione del cantautore veronese evocano un senso di calore e famigliarità che mettono lo spettatore a suo agio.

Per quanto Fiore Mio sia un prodotto cinematograficamente di buona fattura, la sua visione non è per tutti. Sin dall’inizio del documentario si ha la percezione che Cognetti stia raccontando la sua storia a sé stesso, date, tra le altre cose, la mancanza di una voce narrante esterna – che avrebbe potuto essere anche quella del regista stesso, ma separata dai dialoghi e rivolta direttamente al pubblico –, agente da collante per il film, e la carenza negli stessi dialoghi di indizi a sufficienza per ricostruire, in maniera chiara e definita, il percorso interiore del protagonista. Un certo grado di enigmaticità è, tuttavia, condizione inevitabile di ciò che vuole affermarsi come autentico e onesto. Il prezzo da pagare è il non intercettare i gusti di un’ampia fetta di fruitori. Ma questo, forse, Cognetti non se l’è mai proposto e, noi, gliene siamo grati.

Al cinema solo il 25, il 26 e il 27 novembre.

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