Concrete Cowboy, la recensione del film su Netflix

Concrete Cowboy

Adattamento del romanzo di Greg Neri, Concrete Cowboy (qui il trailer), diretto da Ricky Staub, accoglie l’esigenza contemporanea di riportare alla luce le storie delle categorie marginalizzate – o così vorrebbe fare.

Ecco quindi il rovesciamento dell’idea classica di equitazione come simbolo di aristocrazia e dominazione bianca. Nella periferia di un’America devastata, il film rivive la storia dimenticata dei cowboy neri, eliminata dalla narrazione hollywoodiana classica. Il fenomeno storico, pur documentato, appare qui svuotato della propria importanza, in quanto usato per metaforizzare la già centrale questione razziale. Infatti, innestato su una quasi stereotipica storia di riscatto, non ne resta molto più che un guscio retorico ridondante. L’anacronismo dell’allevamento equino, poi, stenta a rappresentare una serie di problemi – troppi – di cui la narrazione vorrebbe fargli carico.

Cole, adolescente problematico, viene obbligato dalla madre a riallacciare i rapporti col padre. Assieme a lui scoprirà il mondo dell’allevamento e, forse, un nuovo modo di vivere. A movimentare il ritmo del film contribuisce la prospettiva urbana, come la strada dello spaccio che Cole, interpretato da Caleb McLaughlin, intraprende parallelamente con l’amico d’infanzia Smush, interpretato da Jharrel Jerome, portatore di una prospettiva cinica in cui la miseria non può essere redenta dall’integrità paterna a cui Cole sembra aspirare.

Ma la redenzione non è mai davvero messa in gioco: lo spettatore non ha modo di dubitare del finale. La brutalità della strada, poi, è mostrata attraverso il più prevedibile degli avvenimenti. Ridotta la possibilità di scelta, il film procede verso un’attesa risoluzione dei propri nodi narrativi, con un ritmo più rallentato che mai. Manca l’audacia registica o la raffinatezza stilistica di un Moonlight, e ciò che segue sa quindi di già visto. Privo di attrattive, il film avanza verso un finale più che atteso, senza tuttavia aver affrontato i problemi che si proponeva di mostrare.

Se infatti la prospettiva sociologica risulta depauperata, specie rispetto alle pretese che sembrava avere, non c’è altro a controbilanciare. I personaggi, che forse ambiscono a una dimensione metaforica, non hanno uno sviluppo capace di monopolizzare l’attenzione; l’elemento del cowboy, il più rilevante, è relegato a una cornice poco efficace, in cui non viene approfondito nulla del fenomeno storico. Il solo punto di svolta che gli si lega, poi, è piuttosto banale. La trama, d’altro canto, non ha una forza sufficiente a sostenere il film.

Il risultato è un malriuscito ibrido in cui le ambizioni autoriali diventano un ostacolo alla fruizione: i tempi estremamente dilatati, infatti, privi di una scrittura brillante, appesantiscono troppo. Scartata la trama, non c’è molto altro. Ciò che resta è quindi un insieme di elementi che, uniti, funzionano da continue diversioni, concertati per portare avanti un film di cui non è chiaro l’intento. I numerosi aspetti controversi a cui pure accenna – la già menzionata questione razziale, la gentrificazione, l’oppressione del mercato immobiliare – rimangono inesplorati, e ogni possibilità narrativa è elusa prima di condurre a una svolta interessante.

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