#PesaroFF61: Cartas do absurdo, la recensione del film di Gabraz Sanna

Cartas du basurdo dasscinemag

È l’estenuante ricerca di un dettaglio ad occupare la quasi totalità della narrazione di Cartas do absurdo, in concorso alla sessantunesima edizione del Nuovo Cinema di Pesaro – sempre che “narrare” sia il termine corretto per definire il viaggio prolisso, ordinario e contemplativo, in cui ci trascina inaspettatamente il film dopo una prima parte abbondantemente legata alle parole. Parole che giungono da un altro tempo e che solo oggi riescono a straripare grazie al ritrovamento di alcune lettere scritte dai nativi brasiliani nel diciassettesimo secolo, lettere che affrontano gli effetti devastanti del genocidio perpetrato dai coloni. I lamenti fantasmatici costanti, duri e ferrosi, dei popoli passati accompagnano questo nostro ondulante avvicinarci ad un punto fisso, e ci aiutano ad abbracciare la prospettiva (soggettiva) senziente di un piroscafo che viaggia a lungo verso non si sa bene dove. Non c’è altra traiettoria; tende sicura a un unico punto attrattivo dal quale non distoglie il suo (il nostro) sguardo, l’imbarcazione, realizzando una sorta di zoom spontaneo, necessario, un avvicinamento che pare prodotto dall’occhio di un’umanità che si sforza di ragionare sulla propria storia.

Questo dettaglio distante, un’isola, “una terra”, si chiarifica e prende forma man mano che superiamo i pochi ostacoli presenti nell’abbondanza del mare, un dettaglio che sembra porsi ipnoticamente in una situazione di stallo, fermo alla stessa distanza, anche se sempre più vicino. E dopo aver studiato l’orizzonte, una volta raggiunta l’agognata destinazione, il dettaglio smette di essere tale, diventando spazio tangibile, e ci rendiamo conto che quell’ideale magica isola verde è in realtà un bosco cementificato, composto da ingombranti edifici metropolitani. «Io non so come è la realtà. Ci sfugge, mente di continuo… Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché immagino ciò che c’è al di là […]. Il fotografo di Blow-Up non è un filosofo, vuole andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce» spiegava Michelangelo Antonioni parlando del suo Blow-Up. E anche oggi, quasi sessant’anni anni dopo, continuiamo a scomporre le immagini, che prima sembrano essere qualcosa e poi si rivelano altro.

É quindi chiaramente un film sulle immagini, quello di Gabraz Sanna, immagini ataviche, suggerite nell’astrattezza di una navigazione in un mare melmoso e sofferente. Se nella prima parte del film il naturale riflesso di un bambino sull’acqua era una proiezione verso un altro mondo – sequenza che tra l’altro sembra legarsi anche al passato delle immagini stesse, girata, forse, in pellicola, donando così un effetto misterioso e sospeso alla situazione – ora quello stesso riflesso ci è impossibile, e l’accesso al mondo dei fantasmi, quindi l’accesso alla comprensione, deve prendere altre vie (un’altra via). La narrazione diventa così il tempo della vita attraverso un piroscafo. «Non c’erano bianchi prima, ora stanno dappertutto. E filmano ogni cosa», afferma la voce narrante. Dobbiamo solo concentrarci su un’immagine in un mare d’immagini, su un dettaglio alla volta, e pensare alla storia che ha portato quel dettaglio ad essere spazio. E se l’immagine soffre, noi soffriamo con lei.

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