
Sono passati 28 anni da quando il virus della rabbia ha iniziato ad infettare gli abitanti della Gran Bretagna. Nel frattempo, il paese è stato isolato in quarantena e i sopravvissuti sono stati lasciati a loro stessi. Il mondo è cambiato: il caos e la confusione iniziali ormai sono un ricordo e i superstiti si sono organizzati per sopravvivere contro la nuova minaccia degli infetti. Ma anche il virus, dal canto suo, si è evoluto per sopravvivere.
Questa l’idea alla base di 28 anni dopo (trailer), con cui Danny Boyle torna ad esplorare l’incubo a cui aveva dato vita nel 2002 con 28 giorni dopo, poi proseguito con 28 settimane dopo da un altro regista, Juan Carlos Fresnadillo. Questo terzo capitolo, che vede il ritorno non solo di Boyle, ma anche di Alex Garland, sceneggiatore del primo film, si pone idealmente come inizio di una nuova trilogia, e intende continuare a raccontare l’andamento progressivo dell’epidemia, seguendo un’idea simile a quella di Romero e della sua saga dei morti viventi.
Lo fa discostandosi parecchio dal film originale, pur rispettandone l’eredità, con uno sguardo alla modernità e la sana intenzione di offrire qualcosa di nuovo. A partire dalla trama: una storia di più ampio respiro, più epica ed avventurosa (seppur più tradizionale) rispetto alle disastrose vicende che vedevano i protagonisti del primo film cercare di sopravvivere fuggendo senza meta in un ambiente ostile, sporco e buio. Stavolta il protagonista è un giovane ragazzino, Spike (Alfie Williams), che sarà costretto ad uscire dalle mura del suo villaggio e ad affrontare il nuovo mondo.
È evidente, come dichiarato dallo stesso regista, che fondamentale sia stata, per la genesi del film, l’esperienza della Brexit: non a caso è rappresentata una Gran Bretagna isolata dal resto del mondo. Ma soprattutto è stata l’esperienza del Covid a influenzare regista e sceneggiatore nel creare una società che dopo anni ha superato lo sbigottimento iniziale e si è ormai abituata ad una nuova convivenza con il virus. D’altronde, le immagini delle strade vuote ai tempi della pandemia non possono non ricordarci della Londra svuotata e spettrale della scena iniziale di 28 giorni dopo.

A livello tecnico il film si presenta molto bene: la regia è efficace, fatta da un lato di movimenti rapidi, caotici, aiutata da un montaggio spesso frenetico e sporco, dall’altro, quando necessario, riesce a rallentare e a regalare momenti di riflessione e di grande emotività. Una bella fotografia rappresenta affascinanti ambienti in cui la natura è la protagonista, con scorci sui grandi paesaggi verdi della Gran Bretagna in cui ormai l’uomo ha perso il suo ruolo centrale. Torna, inoltre, l’elemento di sfida tecnologica che aveva caratterizzato il primo film: se 28 giorni dopo era stato girato quasi del tutto usando videocamere digitali Canon XL1 per dare al film un look sporco e grezzo, stavolta Boyle ha deciso di usare, per la quasi totalità delle scene, degli iPhone 16 Pro Max, con lo stesso intento della prima volta, anche se non con pari efficacia.
La scrittura è convincente, anche se è necessario sospendere l’incredulità in più di una scena in cui i protagonisti riescono a scampare a pericoli apparentemente insormontabili. I pochi personaggi centrali alla vicenda sono ben presentati, e sostenuti da un buon cast in cui spiccano Jodie Comer, nella parte della madre di Spike, ed il giovane Alfie Williams, che, seppur alla sua prima interpretazione, riesce a gestire con successo il peso di un ruolo da protagonista. Oltre a loro, completano il cast principale Ralph Fiennes e Aaron Taylor-Johnson, che, nonostante la fallimentare prova in Kraven – Il cacciatore, ha dimostrato qui, come in Nosferatu, di avere ottimo potenziale se sostenuto da un’efficace scrittura.
La sceneggiatura tenta di affrontare molti temi. Nel complesso riesce nel suo intento, anche se verso il finale tende a scadere in toni retorici che il primo film, con la sua narrazione diretta e anti-epica, riusciva ad evitare del tutto. In compenso, all’interno di questo mondo devastato, ritorna l’ottimismo di fondo che caratterizza il regista e che mancava in 28 settimane dopo: c’è ancora posto per il futuro e per la speranza, anche in un mondo dove, come lascia presagire il finale, gli uomini potrebbero essere diventati più pericolosi degli infetti. E proprio il finale aperto lancia lo spettatore verso il sequel, già girato ed in attesa di essere rilasciato l’anno prossimo.
28 anni dopo è dunque un ottimo sequel che parte da buone idee: non vuole imitare l’originale, che comunque non riesce ad eguagliare, né riproporre lo stesso spettacolo. Al contrario, cerca di offrire nuovi spunti, senza lasciarsi andare alla nostalgia, sfruttando le basi poste dai due film precedenti e portando la saga a un nuovo livello, più moderno e forse più ambizioso per tematiche e dimensione della narrazione. Non è esente da difetti, ma se i suoi due sequel manterranno la stessa qualità e la stessa voglia di raccontare, questa nuova trilogia potrebbe rivelarsi una delle più interessanti degli ultimi anni.
In sala.