VICE – QUANDO LA MEDIOCRITÀ ARRIVA AL POTERE

11 Settembre 2001. Centro presidenziale delle operazioni d’emergenza.
In TV le immagini della catastrofe più sconvolgente nella storia degli USA: i telefoni squillano, c’è caos, panico, agitazione. Cosa sarà passato in quel momento nella testa dell’allora vicepresidente Dick Cheney, mentre assume il potere totale sul governo in assenza temporanea del presidente? Secondo il regista McKay nulla di tutto questo. “Ha solo visto un’opportunità”.

Per tutta la sua vita Dick Cheney è rimasto nell’ombra, in attesa di un’occasione per diventare qualcuno. Passione condivisa e forse trasmessa dalla moglie Lynne(Amy Adams, ormai una garanzia di qualità), studentessa modello cresciuta senza molte opportunità, in un periodo storico poco favorevole per le donne, la quale ripone nel marito tutte le sue speranze di assaporare il potere. Spinge alla grandezza, sogna di ottenere il controllo, di arrivare in alto ed essere temuta. È lei la risposta alla domanda che McKay pone nei titoli di testa: “come ha fatto un mediocre ubriacone, che ha lasciato l’università a diventare uno degli uomini più rilevanti della storia?” Il film torna al momento in cui lei minaccia di lasciarlo se non avesse dato una sterzata alla sua vita, quando il giovane Dick inizia a farsi strada in un programma per il congresso del 1968 dove viene intossicato dal mondo del potere e dell’influenza. Qui inizia la sua carriera politica.

Stupefacente la performance di Christian Bale, che lavora, come al suo solito, con il fisico, con la postura, l’espressività, le pause, il tono della voce, le movenze e ingrassando per le scene del Cheney anziano, ma anche grazie al lavoro del truccatore (sessioni da cinque ore al giorno dal premio Oscar Greg Cannom). Bale è Cheney in tutto.
Come in Batman (un buon allenamento per la voce rauca di Cheney) Bale è chiamato ad interpretare un uomo nell’ombra, ma più che un pipistrello, questa volta deve avere a che fare con un avvoltoio. Cheney non è un uomo che ruba la scena, è uno che preferisce ascoltare che parlare, ma ha un grande tempismo: aa quando e come agire e riesce a diventare un buon manipolatore. Non a caso, la sua grande passione è la pesca, alla quale sarà dedicata una delle scene più divertenti del film.

McKay si diverte a rompere qualunque tipo di convenzione cinematografica e narrativa, attraverso un montaggio e una sceneggiatura che sprizzano di ironia e follia. Le scene brillanti si susseguono una dopo l’altra, dalla già citata scena della pesca in cui Cheney ottiene esattamente ciò che vuole dalla sua preda, il giovane e inesperto George W. Bush (Sam Rockwell); ad altri elementi non convenzionali come la rottura della quarta parete, l’inserimento di falsi titoli di coda a metà film, o di momenti comici surreali come la scena in cui i coniugi sono a letto e scambiano animatamente un dialogo shakespeariano cospiratorio in pentametri giambici.

Il biopic di McKay non vuole dunque documentare in modo tradizionale, ma vuole arrivare alla natura di Cheney attraverso altre vie, lampi di assurdità e fantasia, mischiando toni e stili. Mette insieme, ironia, drammi e fatti documentati per dipingere il ritratto di un uomo senza ideali, convinzioni, né particolari scrupoli, che ha accumulato tranquillamente ricchezza e un potere quasi assoluto mentre nessun altro stava guardando, come un burattinaio silenzioso e letale. Cheney in questo film è il simbolo di come la mediocrità, quando arriva ai vertici, possa diventare pericolosa – tra le colpe riconosciute a Cheney dall’opinione pubblica americana c’è la guerra in Iraq e la conseguente nascita dell’ISIS, lo spionaggio dei cittadini americani e le torture per i sospettati di terrorismo.
Sul finale, McKay propone una connessione tra passato, presente e futuro che sa tanto di monito per questa e la generazione che verrà: Vice, infatti non riguarda solo l’ascesa al potere di un uomo ma la natura del potere politico in generale.

di Luca La Sorsa

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