La fobia in Technicolor: Vertigo torna al cinema

La fobia in Technicolor: Vertigo torna al cinema

Quando nel maggio del 1958 La donna che visse due volte (Vertigo) usciva nelle sale di San Francisco in pochi ne riconoscevano la portata estetica. Il film, che coprì solo i costi di produzione non riscuotendo particolare successo, è tornato il 18 novembre al cinema in versione 4K con la legittimazione di capolavoro. Capolavoro che riesce addirittura a superare, secondo la rivista «Sight and Sound», Citizen Kane e che da anni genera infiniti discorsi, partendo da letture di genere fino ad arrivare ad analisi psicanalitiche.

Se non è possibile offrire un panorama completo e dettagliato del film, testo estremamente complesso e denso di significati, si può tuttavia accennarne un’introduzione. 

“Non lavoro per i cinema d’essai”

Nel 1958 Alfred Hitchcock è un personaggio decisamente noto al pubblico statunitense. Egli ha già girato Rear Window (1957) e a breve lavorerà a Psycho (1960). Il periodo alla fine degli anni cinquanta si configura come un momento contradditorio per il regista britannico. Mentre il suo nome diveniva un efficace brand, grazie soprattutto alla nota serie televisiva Alfred Hitchcock Presents (in onda dal 1955), la critica francese riscopriva la sua figura collocandola nell’ambigua quanto potente definizione di autore.  

Hitchcock del resto è il nome del libro di Claude Chabrol e Èric Rohmer, edito un anno prima dell’uscita di Vertigo. Sono gli anni dei Cahiers du Cinéma e della politique des auteurs: la critica, dai toni inediti e dal forte spirito iconoclasta, comincia a riconoscere l’arte là dove fino a quel momento si era visto solo mestiere[1]. Tale innovazione è sintetizzata in maniera emblematica nel 1966, quando François Truffaut pubblica le sue 50 ore di colloquio con il regista in uno dei più bei libri sul cinema. L’incontro dei due personaggi (con il loro universo culturale di riferimento) rappresenta in realtà l’incontro di due modi di vedere l’arte. Mentre Hitchcock definiva se stesso come un artigiano capace di far funzionare l’industria, l’occhio cinefilo cominciava a riconoscere la sua firma.

Dal romanzo al film

Il romanzo da cui Hitchcock prende ispirazione, D’entre les morts (1954), di Thomas Narcejac e Pierre Boileau, è un libro che, come afferma Truffaut, è stato scritto “apposta” per il regista[2]. I due autori francesi infatti, dopo aver saputo che Hitchcock voleva acquistare i diritti di Diaboliques, si misero al lavoro di una nuova opera. Tuttavia, come nota anche Wood, proprio i cambiamenti apportati al romanzo risulteranno decisivi per lo sviluppo del film.

Hitchcock decide anzitutto di trasportare la vicenda dalla Francia a San Francisco, e di rendere i suoi protagonisti non più creature da disprezzare al livello morale. Essi divengono dei rappresentanti rispettabili di un determinato tipo di condizione umana con la quale lo spettatore è portato a identificarsi. In un’ambientazione sociale differente, il film lascia così alle spalle la visione esageratamente cupa e pessimistica del mondo e delle relazioni[3].

In fase di sceneggiatura poi, il regista si è nuovamente ritrovato a scegliere tra l’immancabile dilemma: suspense o sorpresa. Immaginandosi di “essere un bambino sulle ginocchia della madre che gli racconta una storia[4]” egli sceglie nuovamente la suspense e, differentemente dal romanzo, ci rivela nella seconda parte del film la reale identità della donna. Così sappiamo che Judy (Kim Novak) è in realtà proprio Madeleine, e ci aspettiamo che Ferguson (James Stewart) lo scopra. La suspense provocata dal graduale smascheramento della donna diventa il pretesto che cattura l’attenzione dello spettatore sull’ossessione maniacale del protagonista. E crea l’aspettativa di un colpo di scena che il nostro Hitch saprà soddisfare.

L’origine del trauma

Tra i tetti dei grattacieli di San Francisco un poliziotto e l’agente Ferguson inseguono un criminale, quando quest’ultimo rischia di cadere da un palazzo. Il suo collega, nel tentativo di aiutarlo, precipiterà nel vuoto. Questa prima sequenza di apertura sintetizza molti dei motivi che saranno ricorrenti nel corso del testo.

Robin Wood nella sua lettura psicanalitica della pellicola sostiene come questa costituisca il nucleo portante dell’intero film. Tale sequenza è immediatamente successiva ai titoli di testa: grazie al decisivo contributo dell’illustratore Saul Bass, la sovrapposizione dei nomi sul volto di una donna sconosciuta preannunciano il ruolo che gli stessi ricopriranno nell’arco della narrazione. L’inseguimento si colloca come un evento particolare del film e la disposizione criminale-Scottie-poliziotto è, secondo Wood, il primo richiamo psicanalitico: essa rappresenterebbe la classica triade freudiana Id-Ego-Superego. È proprio questa sequenza a rivelarci i significati profondi che si annidano all’interno del testo filmico, andando a costituire, sotto la forma di uno spaventoso incubo, il trauma originario del protagonista.

La fobia in Technicolor: Vertigo torna al cinema

L’acrofobia da cui è affetto Ferguson, che costituisce la debolezza del personaggio nonché il limite che egli deve affrontare e superare, è generata da questo iniziale episodio. Ferguson sta per precipitare nel vuoto, e una soggettiva che trascina lo spettatore in una potente identificazione mostra l’altezza a lui sottostante. Egli si ritrova così sospeso, e uno stacco che ci riporta in un interno (quello della casa di Madge) crea un’ellissi tipicamente onirica, dove non ci viene mostrato come l’uomo effettivamente sia uscito dalla situazione di pericolo. Il protagonista porterà così con sé questa condizione simbolica durante tutto lo svolgimento della narrazione.

Quello che Wood rintraccia nella genesi del trauma è una sostanziale contraddizione tra due istinti contrapposti: secondo una lettura psicanalitica l’acrofobia è infatti dettata dallo scontro di due tensioni, rispettivamente la paura e il desiderio di cadere[5]. Questo scontro è determinato dall’istinto alla vita e dalla fascinazione per la morte. Fascinazione che tornerà più volte nello sviluppo dell’intreccio.

La donna, che nel primo atto è un’immagine inseguita dal protagonista, è governata da un senso incombente di morte ed è proprio per questa sua connessione che a sua volta affascina in maniera determinante Scottie. Essa si presenta distante, assente. Di lei non sappiamo nulla, e la sua figura è avvolta dal mistero (differentemente dall’altro personaggio introdotto dal film, quello di Midge, di cui conosciamo subito il ruolo). La donna, attorniata da un’atmosfera onirica, è agli occhi di Ferguson (e dello spettatore) un fantasma. Non è un caso che una delle prime sequenze in cui appare è ambientata al cimitero, dove il regista sceglie di utilizzare per le inquadrature dei filtri di nebbia che creino un effetto di verde sul riverbero del sole[6] .

La fascinazione dell’elemento mortifero si rivela poi in tutta la sua potenza nel momento della perdita. Ferguson, disperato per la morte della donna amata, tenta in tutti i modi di ricreare il proprio oggetto del desiderio, in un processo che Hitchcock definisce necrofilo. Il desiderio primario dell’uomo è quello di ricostruire un’immagine sessuale impossibile. Egli si serve di tutti gli strumenti a disposizione, costringendo la donna a indossare gli stessi abiti, le stesse scarpe, a tingersi i capelli. La componente erotica del film opera proprio su questo splendido contrasto: il protagonista, vestendola, sta in realtà denudando la reale identità della donna.

La sensualità rintracciabile nell’immagine di una bellissima Kim Novak, che sotto al maglione non porta il reggiseno (“vantandosene continuamente” come noterà in maniera sprezzante Hitchcock), collide infine con il volto spaventato e innamorato di James Stewart. Tra i due, l’inevitabile vittoria (se mai ne esiste una) appartiene al secondo. Alla donna spetta il sacrificio della morte, che consolida drasticamente l’assunto per il quale “il solo amore eterno di cui siamo capaci è quello per chi non ci appartiene più.”

La fobia in Technicolor: Vertigo torna al cinema

L’effetto vertigo

In conclusione di questa breve analisi vale la pena soffermarsi su qualche aspetto tecnico del film. Il più evidente è sicuramente quello riguardante l’effetto vertigo. Tale effetto costituisce uno degli elementi portanti della pellicola, e viene realizzato in un modo decisamente innovativo, che vede la sincronia dello zoom all’indietro (creando quindi una profondità maggiore) e una carrellata in avanti. Quando Hitchcock scopre che utilizzare lo zoom e il Dolly per la realizzazione della famosa scena sulla tromba delle scale sarebbe costato cinquantamila dollari, decide di realizzare una tromba delle scale in modellino, appoggiarlo orizzontalmente per terra e fare quindi la ripresa. La scena costò diciannovemila dollari. Questo piccolo dettaglio, raccontato dallo stesso regista nell’intervista con Truffaut, è essenziale per inquadrare la personalità ambivalente di Hitchcock. Egli ha anzitutto un dovere nei confronti dell’industria, e ogni idea viene realizzata nei parametri di un sistema di produzione che ha una chiara consapevolezza del mercato e dei suoi doveri.

Lo stesso mercato tuttavia non ha mai impedito al regista britannico di fare cinema nel senso più artistico del termine. Sono tanti i motivi che testimoniano la firma autoriale all’interno del film (come la spirale rotante che emerge fin dai titoli di testa e che richiama il film surrealista di Duchamp Anémic Cinéma). Senza esamnarli tutti, è importante riconoscerne il merito: quello di aver fatto finalmente incontrare il cinema di genere e il cinema d’autore. E di aver mostrato, attraverso la vernice del Technicolor, le paure e i traumi più profondi dell’uomo.


[1] C. Bisoni, La critica cinematografica, un’introduzione, CLUEB, Bologna 2013.

[2] F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 201. 

[3] R. Wood, Hitchcock’s film revisited, Columbia University Press 2002, p. 109.

[4] F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, op. cit., p. 202.

[5] R. Wood, Hitchcock’s film revisited, op.cit., p. 122.

[6] F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, op. cit., p. 203.

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