UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA – L’ANARCHIA DI HALLEY

È un po’ un “Amarcord felliniano nell’anarchia bambinesca della fuga e della libertà” questo sesto lungometraggio di Sean Baker, nelle parole di Davide Turrini de Il Fatto Quotidiano. C’è sicuramente in Gloria, turista cinquantenne a seno nudo in piscina spiata dai bambini protagonisti, il palese omaggio alla Gradisca di “Amarcord”. 

Ma nell’indelicato e a tratti stralunato racconto introdotto quasi per intero dai tre bambini Moonee, Jancey e Scooty, c’è molto di più, c’è l’onesta volontà della rappresentazione dell’America metropolitana vista come un mondo di angeli dalla faccia sporca. Sfregi infantili, trash televisivo e vendette reciproche sono gli elementi dei quali si nutrono questi bambini di circa sette anni. La Florida offre questo.

Si avverte molto Sundance film festival style in questo “The Florida Project”. E guarda caso a differenza del precedente film del regista “Tangerine” (2015) questo non è passato sullo schermo del Festival di Salta Lake City e di Odgen.

Inizialmente riservata ai tre discoli, dopo una mezz’ora abbondante la trama sposta tutta l’attenzione su Moonee (Brooklyn Prince) e su sua madre Halley (Bria Vinaite in splendida forma) che, dissoluta, autoritaria e disonesta, vive in una vita all’insegna della balordaggine costringendo sua figlia a essere spettatrice di tutta la sua prepotenza e del suo malcostume. A toglierla d’impiccio arriva puntuale Bobby, proprietario del Motel nel quale risiede. L’ottimo Willem Dafoe risulta l’unico personaggio di discreto equilibrio comportamentale in una galleria di personaggi deformati dalla frustrazione.

Ma c’è di più, non è una frustrazione prevedibile. La grandezza di Baker sceneggiatore e regista sta proprio nel rendere unici nella loro ingenua violenza caratteriale una cerchia di individui inconsapevoli di quel loro mood balordo ormai insito nelle loro azioni. Prive di quella patina convenzionale che caratterizza una certa super-produzione Hollywoodiana, le donne adulte e bambine del film acquisiscono lentamente ma inesorabilmente una simpatia sinistra ma mai pacchiana.

Ed è proprio il personaggio di Halley a farla da padrone e ad essere il motore dell’anarchia che pervade dal film. Non si nega nessuna volgarità: gesticola scurrilità, impone la sua legge di cinica maliarda, pesta a sangue la sua amica pur essendo dalla parte del torto, ma allo stesso tempo fa tenerezza nel vedere sua figlia come unico vero e proprio alleato in questa sua assurda lotta all’ordine costituito.

Irresistibile la scena in cui si toglie l’assorbente dalle mutande e lo spiaccica sulla finestra di Bobby che nel frattempo l’ha intimata ad uscire dalla Hall del Motel. E anche nella sequenza finale, con gli assistenti sociali pronti a strapparle la piccola Moonee, Baker evita quella probabile drammaticità alla Dickens che in realtà sembrava farci prevedere. E allo stesso tempo, quando la bambina scappata agli assistenti corre a casa di Scooty per comunicargli che probabilmente non si rivedranno più nel suo pianto decifriamo un naturalismo di grande sincerità, ma per l’appunto mai smielato. Solo il ritmo accelerato simil-videoclip nelle ultime sequenze della fuga dei bambini toglie quella figurazione emozionale alla quale il film ci aveva abituato. Forse proprio per via di questa sua grande forza già ci fa venire in mente Fellini.

di Gianmarco Cilento

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