TOMB RAIDER – LE ORIGINI DI LARA CROFT

Per le strade di Londra sfreccia in bicicletta una ventunenne squattrinata, la stessa che solo poco prima le stava prendendo da un anonimo sparring partner durante un allenamento in palestra.

A prima vista non si direbbe, ma la ragazza risponde al nome di Lara Croft. Eroina dei videogiochi anni ’90 e idolo della generazione Y, viene portata per la prima volta sullo schermo nel 2001 e successivamente nel 2003, interpretata in entrambe le occasioni dal premio Oscar Angelina Jolie (Ragazze Interrotte, Maleficent). Nella versione più recente è un’altra vincitrice della prestigiosa statuetta a vestirne i panni, l’attrice di origini svedesi Alicia Vikander (Ex Machina, The Danish Girl). Ma i personaggi non potrebbero risultare più diversi.

La Lara dei vecchi film è una donna matura, esperta, già conosciuta in lungo e in largo come la predatrice di tombe che dà il nome al gioco e alle sue versioni cinematografiche. L’odierna trasposizione, invece, prendendo spunto dal nono capitolo della saga videoludica, ci presenta una ragazza poco più che maggiorenne, ancora acerba e ignara di ciò che l’attende. Non è un’archeologa, non è ancora nemmeno consapevole di voler intraprendere quella strada; sa solo che il padre è scomparso da ormai sette lunghi anni, e che prima o poi dovrà accettare la realtà e fare i conti con il presente.

Quando finalmente troverà il coraggio di guardare avanti, Lara verrà catapultata in un’avventura senza precedenti. La ragazza si imbatterà nella leggenda della tomba di Himiko, apparentemente oggetto di grande interesse per il padre, che potrebbe avere a che fare con la sua scomparsa. L’unico modo per avere delle risposte, quindi, è partire.

È questo l’incidente scatenante di Tomb Raider. È qui che vediamo, per la prima volta, un accenno di quella che sarà Lara Croft.

Con soluzioni registiche abbastanza basilari e una sceneggiatura che nel cercare di rendere l’azione più credibile ha forse appesantito eccessivamente la narrazione, la pellicola del norvegese Roar Uthaug (The Wave, Escape) si rivela poco al di sopra della media del classico film d’azione. I buoni risultati al botteghino – che almeno per la prima settimana dovrebbero essere garantiti – troveranno sicuramente gran parte del merito nell’interesse e nella curiosità attorno alla nuova resa dell’iconico personaggio, piuttosto che nel prodotto in sé.

Ancora sospeso il giudizio che concerne l’adeguatezza al ruolo della Vikander, che aspettiamo di vedere in un eventuale sequel per poter dire se riuscirà o meno a dare quell’impatto e quella personalità necessari a fare dell’odierna Lara Croft il modello di acume e badassery che tutti ci auguriamo.

Anche perché l’idea di soffermarsi principalmente sulle “origini del mito”, quasi come fosse un supereroe di un ormai canonico cinecomic, potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Da un lato allo spettatore è permesso di empatizzare con la protagonista, seguire la sua crescita e la sua trasformazione fisica, ma soprattutto psicologica. Dall’altro la strada scelta potrebbe destabilizzare gli appassionati della versione originale di Gard (ideatore dei primi videogiochi di Tomb Raider) e i sostenitori nostalgici dei film precedenti – invecchiati non benissimo -, i quali avranno forse qualche difficoltà nel ritrovarsi in questo adattamento.

Di certo l’intento degli studios è quello di dar vita a un nuovo franchise all’insegna del female power (con un ottimo tempismo, per giunta, dato che periodo più fertile per tale impresa non poteva esserci). Se questo accadrà, è tutto da vedere.

Dimenticatevi dunque l’archeologa spaccatutto della Jolie e portate un po’ di pazienza: la Lara che conoscete, deve ancora arrivare. Si spera.

 

Di Laura Silvestri

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