L’uomo senza gravità, la recensione del film su Netflix

Su Netflix: L’uomo senza gravità

L’uomo senza gravità (trailer) è un tenero racconto presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma di quest’anno. Produzione italo-belga per la regia di Marco Bonfanti e la distribuzione di Netflix, il film però non riesce a circondarsi in tutte le sue parti di quell’aura favolistica che lo contraddistingue nella prima sezione. La pellicola è infatti divisa in tre differenti atti, che seguono la vita di Oscar (per due terzi Elio Germano) dalla sua infanzia fino all’età adulta.

“Ho fatto un angelo?” è la domanda che sorge spontanea in Natalia (Michela Cescon) quando vede fluttuare il suo neonato appena partorito verso il soffitto. Oscar è venuto al mondo con un superpotere che è super ma non potere, semplicemente una condizione d’essere che lo porta a levitare verso l’alto se non mantenuto con dei pesi in terra. Cresce così iperprotetto da madre e nonna (Elena Cotta) nel microcosmo della sua abitazione che a sua volta è nel microcosmo di un paesino di provincia non meglio definito. In questa prima mezz’ora L’uomo senza gravità dà il meglio di sé, nel delineare quel cordone ombelicale mai davvero reciso che mantiene Oscar ancorato al suolo anche a costo di precludergli il mondo circostante. Tra le metafore (neanche troppo velate) dei pesi nel giubbino per poter camminare, seppur goffamente, e la comitiva di paesane pettegole, qui il film trova la sua più brillante natura da acquarello favolistico, che finisce per plastificarsi nella sezione centrale.

Dopo una prima ellisse troviamo un Oscar cresciuto, con l’ingresso di Germano. Lui e la madre sono andati via dal paese per rifugiarsi tra le montagne lontano da domande e occhi indiscreti. Però Oscar vuole vedere il mondo e approfitta di un’opportunità per scappare via da quella realtà che sembra stargli sempre più piccola e stretta. Inizia l’ascesa del ragazzo in uno show business affamato di freaks da spiattellare in prima tv, ovviamente sotto l’occhio viperino di un manager ancor più famelico. La pellicola finisce per accantonare quasi interamente quella dimensione estremamente intima dell’infanzia, allargandosi agli anemici e a-personali ambienti della città. Il lavoro è tutto sugli estremi, forse troppo, e scade in una visione abbastanza stantia di quello che è il mondo dello spettacolo e dell’utilizzo che questo fa delle sue vetrine. Si capisce la funzionalità di questa sezione all’interno della parabola di Oscar, ma è soprattutto grazie a Germano (patrimonio tra i più grandi del nostro cinema) che il film non si impantana irrimediabilmente.

Nel terzo atto L’uomo senza gravità cambia ancora tono dopo una seconda ellisse, riavvicinandosi a quelle tinte proprie della prima parte pur rielaborandole attraverso differenti mescole di colore. Bonfanti, coerente per tutto il film, ritrova quella dolce intimità che è nucleo forte del racconto e mette nuovamente a fuoco l’anima della pellicola, seppur non inquadrandola genuinamente come avvenuto nella mezz’ora dedicata all’infanzia di Oscar.

L’uomo senza gravità vive una triplice natura nel corso dei suoi circa cento minuti, oscillando tra il molto buono e il raffermo, offrendosi nonostante tutto come un racconto a tratti dolcissimo.

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