The App, la recensione del film su Netflix

Su Netflix: The App

Nick (Vincenzo Crea) e Eva (Jessica Cressy) sono una giovane coppia che vive a Los Angeles. Lui è un aspirante attore che vuole farcela senza l’aiuto della famiglia, importanti industriali, lei una studentessa di psicologia. Nick sta per raggiungere Roma, dove si terranno le riprese del suo primo film. Prima di partire, Eva, cercando informazioni per la sua tesi, lo convince a iscriversi a un’app di appuntamenti, “Noi”. Ma questo lo porta, successivamente, a perdere tutte le sue precedenti certezze personali, lavorative e sentimentali: si innamora di Maria, una sconosciuta che ha iniziato a scrivergli attraverso l’app. 

Se escludiamo la fotografia accattivante e alcune intuizioni registiche di tutto rispetto, The App (trailer) di Elisa Fuksas è un agglomerato di “non lo vedrò mai più perché”. Il primo di questi grandi perché, che spingeranno a gettare nel dimenticatoio questo film, comprende l’interpretazione attoriale: gli attori, non aiutati da dialoghi che McKee definirebbe on the nose, hanno restituito una recitazione, per quasi tutta la totalità del film, davvero poco credibile e distante dalla realtà dei loro personaggi. Ciò che ci si domanda con costanza è: ma lui/lei ci crede davvero? Ma perché ha fatto/detto questa cosa in questo modo? Il risultato è prevedibile: neanche chi guarda riesce a credere a una singola parola o situazione. È voluto? Non è affatto da escludere e la sperimentazione non trova nelle mie parole una ghigliottina.

Ma quando un aspetto è fallace, lo rimane che si tratti di una sperimentazione o della più classica delle tecniche di realizzazione. Viene da pensare che si tratti di una carenza nella direzione attoriale da parte della regista, visto che una delle attrici è Greta Scarano che, in alcuni casi, diretta da altri autori, ha interpretato in maniera notevole altri personaggi (la ricordiamo, decisamente più credibile, sotto gli occhi sapienti di Sollima o più recentemente, in tutt’altro genere, nelle mani dell’abile Sibilia di Smetto quando voglio).

E anche la linea narrativa di The App si rivela poco efficace e poco chiara con troppa carne al fuoco. Non capiamo se si tratti di un thriller (e lo crediamo, anche piacevolmente, nei primi due atti del film), di un dramma religioso, di un film di fantascienza (come viene da pensare nel finale) e se, ancora, si tratti di metacinema, dato che Nick, il protagonista, fa l’attore, ma tutto viene reso in maniera marginale. Il set ci viene presentato, infatti, in pochissime sequenze, per brevissimo tempo e prende le caratteristiche ora di un teatro di posa durante le prove in green screen e ora del camper/camerino dell’attore stesso.

Numerosi argomenti che si scontrano con i principi di “semina-raccolta” di una sceneggiatura classica (e non solo!) e finiscono per mostrarci una serie di subplot non definiti, né risolti, né tantomeno affrontati: personaggi e vicende, soprattutto quelli secondari ma non soltanto, fanno capolino, poi scompaiono, poi ricompaiono senza interagire né svilupparsi, per poi scomparire ancora. Lo stesso protagonista e in particolare il suo sviluppo psicologico è stato sottoposto al principio della “semina”. Tuttavia il momento della “raccolta” arriva con tempi sbagliati, quando lo spettatore già ha compreso da tempo l’essenza di Nick. Un’altra serie di solide scelte? Molto probabile. Ma il principio è lo stesso di prima.

Insomma, mentre guarderemmo e continueremmo a guardare volentieri e con innocente curiosità Nina, l’interessante esordio al lungometraggio di Elisa Fuksas, come altrettanto faremmo con i suoi documentari, preferiremmo non visionare The App. Perché se è forte il desiderio di dimenticarlo, è ancor più forte il desiderio di non catalogarlo come un brutto film.

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