Dolemite Is My Name, la recensione del film su Netflix

Su Netflix: Dolemite Is My Name

Che il film Dolemite Is My Name (trailer) sia presente sulla piattaforma Netflix potrebbe apparire come un’informazione inaspettata a moltissimi lettori. Distribuito a fine ottobre, il film diretto da Craig Brewer probabilmente è passato inosservato perché il pubblico italiano è fuori dal suo target (sarebbe interessante analizzare la campagna marketing che Netflix ha utilizzato in Italia). Il motivo è presto detto: Dolemite Is My Name è un film biografico su Rudy Ray Moore, un comico («Cantante, ballerino e una volta anche l’indovino») il cui nome non solo è sconosciuto oltreoceano (non ha nemmeno la pagina italiana su Wikipedia), ma forse anche alla maggior parte del pubblico statunitense non dirà niente, poiché era un personaggio che si rivolgeva soprattutto al suo pubblico: quello afroamericano. 

La citazione della zia tra parentesi dovrebbe far intendere il personaggio: Rudy (Eddie Murphy) è un talento che non ce l’ha fatta; anzi, sembra che il talento neppure ce l’abbia. Eppure continua a ritentare, a registrare nuovi singoli e assillare i DJ perché passino i suoi pezzi in radio. Ma «nessuno vuole quello che ha da offrire». Lui è (ovviamente) laddove partono tutti i biopic hollywoodiani: ai margini della società. Un fallito un po’ sfortunato, ma caratterizzato da un’ambizione spropositata, forse addirittura cieca, la quale lo condurrà a prendere delle scelte azzardate. 

Su Netflix: Dolemite Is My Name

Dolemite Is My Name è una commedia divertente e volgarissima, ma anche stimolante sotto diversi aspetti. Voluto, prodotto e interpretato da Eddie Murphy, il film esplora il mondo della blaxploitation: film d’exploitation, ovvero film senza alcuna ambizione artistica che puntano a un intrattenimento fatto di violenza e sesso, però rivolti a un pubblico afroamericano (appunto: “bla”- sta per “black”). L’ambizione di Rudy si incuriosisce e viene stimolata quando va al cinema a vedere The Front Page di Billy Wilder e nota due cose: la sala è piena di bianchi e il film non fa ridere né e lui né ai suoi amici neri. Dolemite Is My Name riflette spesso sul target di riferimento di alcuni film e lo scontro tra i produttori e il pubblico afromericano, con i primi che immaginano emozionanti film sulle discriminazioni razziali mentre il pubblico vorrebbe andare oltre.

L’aspetto più interessante del dibattito ideologico nel film di Brewer è che non sfiora mai il razzismo. Il conflitto resta su aspetti teorici che riguardano il target e l’offerta rivolta al mercato, un’offerta però accecata da un’incomunicabilità saccente. Il film di Rudy è un successo al box office eppure sembra un problema, perché non è un film d’autore e i critici lo bocciano all’unanimità. Il dibattito tra cinema impegnato e cinema d’intrattenimento è vecchio quanto il cinema stesso, e non è difficile, leggendo i commenti sui social sotto i post che annunciano il successo al botteghino di film come Tolo tolo, a che punto sia arrivato. Dolemite Is My Name però ironizza su questo conflitto chiedendo agli schieramenti di abbassare le armi e dimenticare la battaglia: hanno già vinto tutti perché ogni film ha il proprio target. 

Su Netflix: Dolemite Is My Name

La sceneggiatura di Dolemite Is My Name è curata da una coppia che non è nuova nella scrittura di quei personaggi con un talento incompreso: Scott Alexander e Larry Karaszewski infatti hanno scritto Ed Wood di Tim Burton e Man on the Moon di Milos Forman. Lo script soffre di didascalismo e raramente il film fa comprendere i pensieri dei personaggi senza che questi non siano spiegati con una chiarezza quasi fastidiosa. Nonostante ciò, il film sa regalare momenti divertenti, come l’attrice che si lamenta di venire male in fotografia e confessa di aver paura del cinema, perché le hanno detto che è come se venissero scattate 24 fotografie al secondo. Dolemite Is My Name è sicuramente un film stimolante sotto alcuni aspetti contenutistici, però sotto il profilo formale è soltanto soddisfacente: Brewer non sembra avere la competenza artistica per dare al film quel carattere irriverente che forse, talvolta, richiedeva. Non sfrutta l’aspetto meta del film (il personaggio nel personaggio, ma anche il film nel film) come fa, per esempio, Michel Gondry in Be Kind Rewind. Non sarebbe un problema se non fosse il film stesso a offrire le occasioni a Brewer e questi le ignorasse. 

Dolemite Is My Name è una commedia che diverte mentre mostra il dietro le quinte di un mondo in cui era (e rimane) difficile districarsi. Sotto l’aspetto volgarissimo, c’è un film intelligente e malinconico che riesce a intrattenere lo spettatore e spingerlo addirittura a ragionare su alcuni aspetti del funzionamento del mercato cinematografico, dello star system e di quegli stereotipi che è ancora difficile superare, o addirittura vedere.

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