Bone Tomahawk, la recensione del film su Amazon prime Video

Il fascino del vecchio West ha sedotto molti di noi, ma è innegabile che al giorno d’oggi non sia protagonista del media cinematografico come lo è stato in passato. Tuttavia ogni anno almeno uno o due western di buona fattura arrivano: come La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen a The Hateful Eight di Tarantino; I fratelli Sisters di Jacques Audiard (qui la recensione). Film che comunque grazie ai nomi importanti di cast e registi non hanno sofferto la mancata luce dei riflettori. Contrariamente a questi vi è Bone Tomahawk (trailer), film del 2015, opera prima di Steven Craig Zahler, disponibile su Amazon Prime Video.

Verso la fine dell’Ottocento, nelle terre desolate del selvaggio West, si trova Bright Hope, cittadina popolata principalmente da mandriani, che rimane praticamente deserta a causa della transumanza. Nel pieno della notte, coloro che sono rimasti in città diventeranno bersaglio di una tribù di nativi, etichettati dagli uomini bianchi e da altri popoli indiani come “trogloditi” per via della loro ferocia, della mancanza di linguaggio e per il cannibalismo. Lo sceriffo Franklin Hunt (Kurt Russell) guiderà una spedizione per rintracciare il covo della tribù di trogloditi e impedirgli di fare scempio delle persone rapite. Ad accompagnarlo un gruppo di uomini, composto dal suo vice Cicoria (Richard Jenkins), John Brooder (Matthew Fox) esperto della caccia agli indiani e Arthur (Patrick Wilson), marito di una delle donne rapite.

Quella che parte come un’avventura alla John Ford però si trasforma nel corso del film in un vero e proprio viaggio infernale, a metà tra Cannibal Holocaust (lo scontro tra due mondi) e l’originale Non aprite quella porta (colonna portante degli horror sotto la luce del sole). Una tragica odissea nella quale i protagonisti continuano imperterriti ad avanzare, andando in contro a morte certa. Un film quindi, che nonostante l’ambientazione deve molto più all’horror che al western. A dimostrarlo ci pensa la regia, attraverso l’utilizzo della telecamera a mano, o delle frequenti inquadrature strette, e quando l’inquadratura si allarga non punta a ritrarre i paesaggi spettacolari della Monument Valley, anzi, reinterpreta l’immaginario paesaggistico western cupo e privo di colori, dove a riempire l’inquadratura ci pensano principalmente la polvere, le sterpaglie e i cadaveri che a lungo andare ci lasceremo alle spalle. Vi è l’utilizzo di telecamera a mano anche nelle scene più al cardiopalma, frequenti nell’horror anziché nel western.

Il film si prende tutto il tempo per permettere lo sviluppo dei personaggi (cosa rara al giorno d’oggi nell’horror): le scene si sviluppano da sole tramite le decisioni e le parole dei personaggi, e così la tensione si accumula, insinuandosi piano ma in maniera costante, fino ad essere sprigionata da un improvviso evento esterno, come un colpo di pistola sparato da Brooder in uno stallo alla messicana, o il sibilo di una freccia che fende l’aria e si conficca nella carne cogliendo tutti di sorpresa. La musica non fa di certo da padrona nel film, è minimalista e agisce contro le aspettative dello spettatore, perché non avverte mai dell’imminente pericolo. La sua quasi totale assenza nel corso del film permette allo spettatore di entrare nella vicenda cruda e reale, empatizzando al meglio con i personaggi compagni di viaggio.

Da quanto scritto finora si può evincere che la tensione sia il cavallo trainante del film, ma in seconda battuta vi è il gore, con scene di efferata violenza da parte dei cannibali alle proprie vittime, anche se solo in poche ma neanche brevi sequenze. Un film quindi che, da buon horror, potrebbe urtare i più sensibili, ma se non rientrate in quest’ultima categoria di persone potreste seriamente prendere in considerazione l’idea di passare una serata nelle terre polverose del West.

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