SPECTRE – APPUNTAMENTO CON IL MITO

Che bontà. Vedere gli episodi di James Bond è come bere un Martini variato ad aperitivo: Dirty, Wet, Dry, Gibson, Vodka… La stessa tipologia di cocktail, la stessa mitologia cinefila e (ma non sempre) una variazione identificativa che soddisfi il palato. E Spectre ha sicuramente un gusto proprio.

Sembra giusto segnalarlo, dato lo spontaneo e diffuso confronto con il suo fortunatissimo precedente. D’altra parte, si tratta di riserve critiche che considerano debolezze intrinseche: Madeleine Swann come replica di Vesper Lynd, ed Ernst Blofeld come villain quasi “irrappresentabile”, tanta è la sua importanza. Personaggio peraltro solo referenzialmente “terrorizzante”,  addirittura umiliato nell’ultima scena sul ponte londinese. E se un commento critico su Christoph Waltz potrebbe essere azzardato, considerandone l’indiscutibile presenza scenica, non sarebbe del tutto immotivata l’esigenza di una sua reinvenzione interpretativa (che superi il sarcasmo di un’ espressività ormai carattetistica).

Sono considerazioni che interessano per di più una seconda parte di pellicola (vera 35 mm) narrativamente fragile, forse non magistralmente gestita come l’altrettanto delicata seconda metà di Skyfall. Lo script più solido rimane quello di Casino Royale. Ma i due episodi di Sam Mendes guadagnano in raffinatezza registica e Spectre stesso ha un’ attrattiva straordinaria: l’incipit, aperto da un fluido long take di circa quattro minuti (probabili due stacchi interni intelligentemente dissimulati), è tra i più belli della serie; l’azione ha una concretezza fisica pregevole, in linea con lo spirito antitecnologico, tematico oltre che tecnico, dell’attuale 007; in questo senso esemplari la sequenza austriaca e quella sulla ferrovia africana, con una messinscena ottimamente elaborata.

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Altrettanto brillante il fascino fotografico: vedi l’ uso del giallo-ocra romano (formidabile la ripresa aerea sul viale alberato dell’illusorio Palazzo Cardenza) e la sua perfetta integrazione in una concezione cromatica geograficamente ricercata (Città del Messico, Tangeri e il cratere africano, dove anche Bond veste marrone). Lo splendido risultato finale ha l’aspetto terrigno di una sabbia desertica. E quindi pregi, specificamente visivi, e vulnerabilità, di una sceneggiatura “inevitabilmente pretenziosa” (visto il percorso spionistico ed emotivo del Bond craighiano), che fanno il 24° prodotto di un’industria culturale ormai quasi garantita: 007 è un trionfo cinefilo felicemente rinnovato, pura e affascinante autoreferenzialità cinematografica.
E Spectre è certamente tale.

Diego Bellante (LMS)

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