Professione: Reporter, intervista all’assistente cameraman Michele Picciaredda

Professione: Reporter, intervista all’assistente cameraman Michele Picciaredda

Il direttore della fotografia Michele Picciaredda racconta tutti i retroscena delle riprese di Professione: Reporter di Michelangelo Antonioni, ancora oggi tra i film più apprezzati del cineasta ferrarese, oltre che tra i più conosciuti all’estero. Picciaredda svolgeva l’incarico di assistente cameraman.

Caro Michele, Professione: Reporter è stata una delle tue prime esperienze come assistente operatore se non sbaglio.

Non proprio una delle prime. Forse la dodicesima, lavoravo già da qualche anno nel mondo del cinema. Sono arrivato all’incarico di assistente per quel film in questo modo. In quel periodo lavoravo con Luciano Tovoli, che era stato chiamato da Antonioni per fare da direttore della fotografia per Professione: Reporter. Durante la preparazione del film con la stessa casa di produzione, quella di Carlo Ponti, abbiamo fatto Mordi e fuggi di Dino Risi. Finito il film c’è stato un problema, non si riusciva a chiudere il contratto con Jack Nicholson, perché l’attore era nel frattempo sotto contratto con la Paramount, quindi era vincolato. E la bravura di Ponti nel prendere Nicholson per un determinato periodo è stata notevole. Però c’era una condizione: l’attore poteva prendere parte al film solo attorno ad una certa data e non oltre. Quindi ci eravamo visti costretti a girare le scene di Nicholson in anticipo rispetto ai tempi previsti! Infatti nella famosa sequenza finale non c’è Jack, ma una controfigura, perché quando abbiamo girato tutto il resto già lui era partito.

Parliamo un po’ del clima che si respirava sul set con Antonioni, Nicholson e la Schneider. Cosa ricordi più piacevolmente?

Davvero bei ricordi. Jack Nicholson era un grande giocherellone, come pochi al mondo. Una ne faceva, tre ne pensava. Antonioni è stato il mio maestro, arrivati a metà delle riprese mi ha detto “tu sei pronto per fare l’operatore di macchina” ed è stato il primo a dirmelo, dandomi una carica incredibile. Mi ha insegnato tutto: il senso dell’inquadratura soprattutto. E la cosa ancor più bella è che il nostro rapporto è poi continuato. Maria Schneider era una ragazza abbastanza simpatica anche se purtroppo, dobbiamo dirlo, era sotto shock per via delle esperienze vissute in merito a Ultimo Tango a Parigi che aveva girato poco prima. Aveva la fobia delle scene di sesso, supplicava di non voler girare scene “forti”, e infatti per la sua scena d’amore con Jack c’è stata una fatica tremenda da parte di Antonioni per convincerla a girarla, e all’ultimo minuto aveva deciso di fargliela girare in campo lungo. Dimostrando anche così di essere un maestro. Ma al di là di questo posso garantire che la Schneider non aveva vissuto nessuna violenza, ne ho parlato con tutti i collaboratori del film, da Bertolucci a Storaro, dall’operatore di macchina a tutti gli altri tecnici. Tutti mi hanno confermato che non era successo nulla. Erano quelle montature giornalistiche per dare scandalo che all’epoca andavano tanto di moda.

C’è un piano-sequenza molto complesso nel quale la cinepresa oltrepassa delle inferriate con grande mobilità da una stanza, finendo per scrutare lo spazio esterno adiacente. Con quale trucco la mdp ha superato la grata?

Allora, mentre la cinepresa avanzava fisicamente c’era uno zoom che “prolungava” l’avanzata della mdp che in realtà si era fermata e nascondeva le sbarre, nel preciso momento dello zoom la grata veniva aperta. Era stata segata a metà e nel momento dello zoom veniva spalancata con delle cerniere. Dopodiché la mdp, una volta uscita dalla finestra, veniva agganciata con dei tiranti da una gru (alta 22 metri) e cominciava il percorso all’interno del piazzale. E mentre si svolgeva il resto della sequenza (l’arrivo dei poliziotti, l’entrata degli stessi nell’albergo) nel frattempo richiudevano la grata.

Professione: Reporter, intervista all’assistente cameraman Michele Picciaredda

Un lavoro di coordinamento a dir poco spettacolare.

Certo. Ricordo ancora Antonioni dare una miriade di indicazioni allo scenografo del film, il compianto Piero Poletto, per ottenere il risultato migliore. E nel frattempo che stavamo girando altre scene Poletto ha organizzato il tutto. L’albergo che si vede nel film era una vecchia catapecchia, per ricostruirla c’è stato un lavoro non indifferente. Era una location vicino Murcia, in Spagna meridionale. Per quanto riguarda l’inquadratura della grata le difficoltà non sono mancate ma fortunatamente le abbiamo risolte in seguito: la cinepresa utilizzata, ricevuta dal Canada con tanto di tecnici specializzati che l’hanno montata, era guidata da giroscopi. I giroscopi erano però protetti da un involucro, e questo era talmente grosso che non riusciva a far uscire la mdp dalla finestra. Quando la mdp usciva dalla finestra i giroscopi impazzivano per via di un filo di vento che faceva perdere il controllo ai comandi. Dovevamo girarla in un orario fissato tra le 14:30 e le 15:30, altrimenti non ci sarebbe stata la luce giusta, anche perché l’arena di fronte avrebbe dovuto avere una buona luminosità. Per girare quella sequenza ci abbiamo messo quindici giorni, tra altri problemi, metereologici e cose simili. È stata abbastanza dura. Finita quell’impresa le riprese si sono concluse.

Che cinepresa era stata utilizzata per il film?

Una Mitchell R35, utilizzata soltanto per quella scena. Per il resto del film ne avevamo due ottimi modelli, anche se Mitchell semplici. Quella utilizzata per il famoso piano-sequenza non era sonora, perché più leggera. Antonioni voleva macchine silenziose, esili e semplici. Con quella ci avevamo fatto molte prove prima della sequenza finale: ad esempio nelle sequenze in macchina, nel vialone, dall’alto, dal basso… in tutti i modi possibili. Per la sequenza della grata abbiamo utilizzato una bobina da 300 metri (10’), essendo la durata della stessa di 7’ 20’’. Il costo di quella bobina era di un 1.380.000 £ d’epoca (6.500 euro attuali, ndr), quindi possiamo immaginare la valenza della pellicola, che era un’ottima Kodak.

In che lingua è stato girato il film?

Nicholson recitava in inglese naturalmente, la Schneider pure, anche se parigina. Il resto era un misto di spagnoli e inglesi che recitavano nella loro lingua madre. C’era qualche tedesco, ma nessun italiano dal momento che non abbiamo girato nulla in Italia. Antonioni parlava abbastanza bene francese e inglese, non aveva difficoltà di comunicazione. Aveva già realizzato Blow-Up e Zabriskie Point quindi la sua esperienza con l’inglese l’aveva fatta. Ma avevamo tutti molta dimestichezza con le lingue, infatti non avevamo né interpreti né tantomeno dialogue coach. Anche la nostra segretaria di edizione era trilingue. Il film è stato girato con una buona presa diretta, Antonioni preferiva così. Lo ha fatto per quasi tutti i suoi film.

Per quanto riguarda la direzione degli attori da parte di Antonioni?

Devo dire che Michelangelo ha sempre dato molta libertà agli interpreti. Se Nicholson finiva per aggiungere qualcosa non veniva certo ripreso. Si facevano i colloqui, le riunioni… ma non si sognava di annotare con pignoleria se l’attore non avesse detto una battuta per come era stata fissata in sceneggiatura. Non era maniacale in quel senso, anche perché come ho già detto, non avevamo molto tempo visti i successivi impegni di Nicholson. Inoltre non impiegavamo molto a girare una singola scena, non ripetevamo nemmeno la sequenza molto. Qualche volta, ma raramente, è stata ripetuta dieci ciak. Le sue scene sono state girate in dieci settimane di riprese, nonostante tutti gli spostamenti: prima a Monaco di Baviera, poi in Inghilterra, in seguito a Barcellona e per finire in Algeria meridionale, più precisamente a Djanet. Quando poi siamo ritornati in Spagna per girare il materiale mancante Nicholson ci ha salutati prendendo il volo per Los Angeles.

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Le scelte di scenografia (la Barcellona di Gaudì, ecc…) venivano decise giorno dopo giorno o erano comunque già definite in sceneggiatura?

No, quando Antonioni andava a fare i sopralluoghi portava con sé sempre il direttore della fotografia e l’architetto, che era poi lo scenografo. Però una volta giunto sulle location, che aveva già in mente, dava le indicazioni e Poletto le seguiva. C’è da dire che lui e Michelangelo lavoravano insieme da quindici anni e avevano un certo feeling. Ma tutti i grandi registi si affidano ad architetti qualificati, e questi non devono far altro che affidarsi alle loro direttive, anche se il loro contributo è fondamentale. Stesso discorso per il direttore della fotografia. Tovoli era ancora alle prime armi, ma il suo dovere nel film lo ha fatto benissimo e si vede. Poi con Antonioni non era facilissimo lavorare in qualità di cinematographer in quanto chiedeva una fotografia tutta a fuoco. Bisognava dargli un certo tipo di luce, non voleva che il fuoco variasse da un personaggio all’altro. Dovevano essere tutti ben focalizzati e con certe caratteristiche che davano la possibilità di avere profondità d’immagine.

Quindi chiedeva le focali corte?

Certo. Più è lunga la focale, meno profondità di campo hai. Anche se questa può essere compensata con il diaframma. Io regolavo il fuoco, facevo l’assistente cameraman, e quando notavo qualche problema con la focale (vista la sua esigenza di profondità di campo) glielo riferivo subito. Ovviamente diceva “devo però vedere il cambiamento di fuoco!” perché detestava quel “pompaggio” che si poteva creare nelle messe a fuoco. Voleva immagini limpide e trasparenti. E non c’è stata una focale che è andata per la maggiore. Le ha usate tutte: corte, medie, lunghe… Poi era esperto di queste cose, era un ottimo tecnico. Non potevi fare il furbo con lui. Anche perché poi si andava inevitabilmente in proiezione prova e se si accorgeva dell’inganno te lo faceva notare.

Ci sono state scene tagliate?

In proporzione a tutto quello che è stato girato pochissima roba. Ad esempio il viaggio di Nicholson e la Schneider era più lungo, e per questione di ritmo è stato un po’ accorciato. Delle passeggiate nel deserto è stato tolto qualcosa ma nulla di più. Per i frammenti di repertorio ad esempio avevamo a disposizione molta roba, tutta vera e girata in 16mm, ma c’erano molti frammenti raccapriccianti e nel film finito abbiamo usato il meno invasivo possibile. Lo posso dire con certezza dal momento che ho assistito anche al montaggio del film.

Raccontaci un po’ di alcuni retroscena del montaggio.

Lo avevo proprio chiesto ad Antonioni di poter assistere, per capire cosa ne sarebbe uscito fuori da questa montagna di materiale girato. Lui ha acconsentito, e assistevo alle grandi discussioni tra Michelangelo e il montatore Kim Arcalli. Ricordo che per una sequenza Antonioni aveva chiesto il cosidetto “attacco in movimento”. E Kim che replicava “ma non si possono fare!”. Ne viene fuori una discussione fermata dall’assistente al montaggio, Gabriella Cristiani, futura montatrice di Bertolucci. Gabriella è intervenuta dicendo “ci provo, basta che la piantate!” (ride). Ha quindi fatto questi attacchi in movimento per come li aveva chiesti Antonioni, e siamo ritornati in moviola per visionarli Arcalli ha detto “Hai ragione Michelangelo, funziona perfettamente!”. Quel giorno è nato l’attacco in movimento. Arcalli non voleva cedere, ma alla fine fa parte del ruolo del montatore. E un mestiere ripetitivo in un certo senso, si attiene a certe regole, mentre Antonioni aveva chiesto uno stravolgimento delle stesse.

Tutte le foto presenti nell’articolo sono state gentilmente concesse da Michele Picciaredda.

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